Parigi
La carogna di Notre Dame e i ricchi avvoltoi
Notre Dame de Paris è bruciata. Si è compiuto in questi giorni un evento che ha determinato una sorta di emotionstorm, ossia uno shitstorm che al posto di spandere deiezioni digitali è fatto di accorate foto pregne di tristezza, di rammarico, di dolore, di proclami universalistici e di melenso senso di bontà. Sciami digitali, nulla di più.
Ma, come bene ha detto Byung Chul Han, questi sciami digitali “Si dissolvono con la stessa rapidità con cui si sono formati. A causa della loro fugacità non sviluppano energie politiche.”
Infatti, tra qualche mese, se non tra qualche settimana o magari tra qualche giorno, del tonante e drammatico flusso di sconvolto rammarico per “la perdita di un simbolo della nostra identità” o dell’editto contrito sulla “fine del tempo dell’Europa” sepolta sotto le braci della cattedrale di Parigi, non ci sarà più molta traccia. Basterà una nuova fotogenica tragedia o una nuova iconcina social a uso dell’emotionstorm, per mettere Notre Dame nella cantina delle coscienze inebetite dai social network.
Ma c’è una categoria, in queste tragedie, che appare sempre più disinvolta e robusta: la categoria degli avvoltoi che planano sulle spoglie che restano dopo i disastri. Due tipologie di tali fattispecie mi hanno particolarmente colpito in questo caso. In primis la sfrontata ed esibita corsa compulsiva dei supermiliardari – francesi ma non solo – a donare botte da centinaia di milioni di euro alla volta per ricostruire la cattedrale distrutta. A seguire le solite, noiose, archistar che si propongono come progettisti donando il loro inaudito talento ai posteri.
Orbene, evviva i miliardari (così almeno non mi si fanno le morali). Ma ciò che sconcerta è l’assenza totale di qualsiasi riflessione critica sul ruolo che i “dominanti del mondo” rivestono, relativamente al fatto che un bene collettivo, anzi, un “bene dell’umanità”, abbia potuto incenerirsi non per la calata di barbari o di invasori ma per la semplice, incrementale, distruzione di un’entità collettiva – possiamo ancora chiamarla “Stato”? – che custodisse questo immenso patrimonio materiale e simbolico. Chi – se non il realismo capitalista – si è profuso in continue, costanti e profonde azioni tese a smantellare le strutture socioeconomiche che hanno consentito la progressiva ritirata dell’istituzione pubblica dalla dimensione collettiva?
Ed ecco, dunque, che la stampa mainstream non si sofferma minimamente sulle cause di lunga gittata che hanno portato all’agonia del patrimonio pubblico, ma si spende subito in odi sperticate nei confronti della piccola masnada di plurimiliardari che – elargendo donazioni monstre (mancette, se paragonate ai loro patrimoni) – coglie una incommensurabile occasione per pubblicizzarsi come “salvatrice del patrimonio dell’umanità”. Perché è grottesco leggere i ritratti gloriosi di questi munifici individui (o industrie) che fanno ciò che dovrebbe fare un’entità collettiva, ossia lo Stato. Stato, tra l’altro, che in Francia si è anche arrogato il compito di detenere il patrimonio ecclesiastico – ah, il laicismo, quanto è produttivo – senza essere in grado di mantenerlo.
Insomma, mi sarei aspettato, al fianco dei peana per i plurimiliardari, almeno qualche flebile voce che dicesse che è tempo, per tornare a occuparci dei beni collettivi, non di attendere mance corpose e pubblicitarie dopo che i buoi sono scappati e i disastri compiuti, bensì prima. Magari facendo pagare più tasse ai superricchi, ovunque essi si spostino nel loro mondo.
La seconda fonte di frustrazione è invece arrivata leggendo un’intervista di Fuksas, architetto rivoluzionario integratissimo, che vaneggia, qualche ora dopo la catastrofe che ha distrutto la cattedrale parigina, di ricostruzione della stessa. E anche qui la stampa mainstream rilancia le bofonchiate di Fuksas come fossero perle di teoria del restauro, il cui culmine sfocia nella colossale minchiata (mi si perdoni, per l’appunto, il francesismo ma nessun altro termine più efficace mi sovveniva) della nuova guglia da farsi in cristallo di Baccarat. Ma dannazione, possibile ridurre i barlumi di un possibile dibattito post-traumatico a una guglia in cristallo pensata da lui “e Doriana”? Perché non interpellare teorici del restauro o del risanamento conservativo, architetti a favore di interventi “mimetici” e altri tesi alla stratificazione storica, in modo che le cialtronate di Fuksas si fossero poi magari potute inserire in un discorso più compiuto?
No, meglio anche qui cercare la strada breve, quella strada spesso tracciata dalle agenzie globali di PR, ossia mostrare le icone vincenti che indicano la meta, perpetuando il dramma dell’attualità: da un lato pochi ottimati avvoltoi che si rimpinzano della carogna di pietra di Notre Dame, dall’altro la plebe.
Che, guardando il prossimo film di Walt Disney del Gobbo di Notre Dame vestito da pompiere, sui cui titoli di coda scorrerà l’annuncio “Walt Disney Company ha donato 5 milioni di dollari per la ricostruzione di Notre Dame”, sospirerà dicendo: “Ecco a cosa servono i ricchi. Sempre viva i ricchi!”. E continuerà, immancabilmente, a soccombere.
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