Parigi
Il (non) racconto dell’influenza di Hong Kong, il (non) racconto della morte
«Non avevamo il tempo di portare via i morti. Stipavamo i corpi in una stanza sul retro della terapia intensiva e li portavamo fuori quando potevamo. (…) Le persone arrivavano nelle barelle, in condizioni terribili. Morivano di emorragia polmonare: labbra cianotiche, grigie. Ce n’erano di tutti le età: 20, 30, 40 e oltre. Il tutto è durato 10–15 giorni e poi si è calmato. E stranamente ce ne siamo dimenticati».
La testimonianza è del dottor Dellamonica, raccolta nel 2005 da Libération: si tratta di una memoria relativa all’influenza cosiddetta di “Hong Kong”, che ha colpito il mondo e l’Europa, tra il 1968 et il 1970. Dellamonica, all’epoca ventenne, lavorava in rianimazione all’ospedale Edouard-Herriot di Lione.
Terza pandemia del Ventesimo secolo — dopo la “Spagnola” (20–40 milioni di morti nel 1918–1920) e l’ “Asiatica” (2 milioni di morti nel 1957) — l’influenza di Hong Kong si calcola che abbia ucciso un milione di persone. Di questi 31.226 in Francia (di cui 25mila SOLO nel dicembre del 1969), circa 20mila in Italia, 50mila negli Stati Uniti nel 1968 (in tre mesi). Qui la storia raccontata dal Sole24 ore (che parla di 2 milioni di morti), oppure rimando a Wikipedia.
L’articolo di Libé che cito, uscito nel 2005 in periodo di aviaria, è praticamente il primo che mette nero su bianco questi dati. Perché di quella “pandemia” lì non si è parlato, o se ne è parlato poco. Il dato preciso dei morti francesi è stato pubblicato dall’epidemiologo Antoine Flahault SOLO nel 2003. Libération è tornata sul tema con CheckNews recentemente per rispondere ai dubbi dei lettori in proposito («È vero che l’influenza di Hong Kong del 1968 è stata minimizzata dai media?»).
È vero, per la Francia almeno
«Alla fine degli anni Sessanta, l’influenza, i suoi malati e i suoi morti non interessano. Non interessano le autorità, non interessano il pubblico, non interessano i media. Quello di cui si parla è l’Apollo 12 sulla Luna, il pantano americano in Vietnam, la strage in Biafra, la fine della Rivoluzione culturale in Cina, l’installazione di Pompidou all’Eliseo con la priorità di calmare il post-68, gli scioperi che ancora infiammano il Paese, le università e le scuole. Gli ospedali non sono un tema di interesse. Neanche per la stampa francese che, nell’inverno del 1969, mentre l’influenza di Hong Kong raggiungeva il suo apice, dedicava sporadici articoli all’”epidemia” (la parola “pandemia” non era usata)», dice su Libé Corinne Bensimon nell’articolo sopracitato. Per capire la portata dell’evento: si calcola che i malati fossero, in Francia, 12 milioni, ovvero un quarto della popolazione all’epoca.
Bensimon elenca gli articoli usciti sul tema: pochi, e soprattutto, tendenti a minimizzare, persino ironici. Daniel Schneiderman fa notare che l’ORTF (la Radiotelevisione pubblica dell’epoca) ha fatto esattamente la stessa cosa.
E non è che non fosse percepito all’epoca. Il 10% del personale SNCF (società dei treni in Francia) nella regione di Toulouse-Pyrénées è malato, l’Asl di un’intera città chiude per lo stesso motivo, i treni saltano per mancanza di personale, le scuole sono in difficoltà per mancanza di insegnanti e pure il Cancelliere tedesco Willy Brandt è costretto a letto.
E la scienza? Stessa cosa: nell’ottobre 1969 durante una conferenza sul tema organizzata dall’Oms ad Atlanta si sostenne che il pericolo fosse passato. L’influenza, al contrario, fece, nei mesi successivi, i morti di cui sopra.
«Altri tempi, altre abitudini: nessuno ha accusato gli esperti e/o il ministro della Salute, Robert Boulin, di aver trascurato questa influenzona che ha mandato 31.000 persone al cimitero» dice Libé NEL 2005.
Perché? «Alla fine degli anni Sessanta, c’era fiducia nel progresso in generale, e nel progresso medico in particolare (…) C’è ancora un’alta mortalità per infezioni nei paesi sviluppati, ma la maggior parte delle epidemie sono scomparse grazie ai vaccini, agli antibiotici e all’igiene» spiega (sempre nel 2005) Patrice Bourdelais storico della salute pubblica all’Ecole des hautes études en sciences sociales. “Grazie” a questa influenza in Francia si lavorerà sul vaccino influenzale, spiega Claude Hannoun dell’Istituto Pasteur: «Siamo passati da 200mila dosi di vaccino all’anno nel 1968 a 6milioni nel 1972».
Patrice Bourdelais, ricontattato da Arrêt sur Image, quindici anni dopo l’articolo di Libé, aggiunge «Avevo vent’anni all’epoca e non ne ho alcun ricordo».
Il rapporto alla morte
Lucie Dendooven, il 9 aprile su RTBF (Radiotelevisione belga della Federazione Wallonie-Bruxelles) si chiede «Perché abbiamo dimenticato una pandemia che ha fatto un milione di morti?».
«Il costo della vita umana era probabilmente molto diverso all’epoca. Con la crisi del coronavirus, per la prima volta, le società hanno scelto la vita invece dell’economia», dice Serge Jaumain, storico dell’Università Libre di Bruxelles.
«All’epoca la prospettiva di morire per un’epidemia era terribile ma non inaccettabile. C’è stato un cambiamento di mentalità, oggi abbiamo passato uno “scoglio” antropologico, non accettiamo più la morte. Nelle nostre società, stiamo assistendo alla scomparsa della morte e alla sua rappresentazione», dice Vincent Genin, ricercatore in Storia alla Scuola pratica dell’Ehess di Parigi e alla KULeuven.
Il rapporto alla cura e il “diritto” alla salute
Laure Lugon sullo svizzero Le Temps si fa la stessa domanda, ricordando che dell’influenza di Hong Kong non si preoccupano né le autorità, né i media, ma nemmeno i cittadini.
Le Temps riporta la testimonianza di un abitante del Canton Vallese, Georges (oggi 78enne): «Non avevamo raccomandazioni specifiche e non venivamo informati sulle statistiche relative numero di decessi da parte delle autorità. Era un periodo in cui perfino i pericoli più imminenti passavano inosservati alla gente comune».
«Come si può spiegare una tale trasformazione nell’arco di cinquant’anni, passando dall’incuria al terrore collettivo? (…) Questi due episodi rivelano comunque profondi cambiamenti nel nostro rapporto con la morte, il controllo e l’individualismo», continua Lugon su Le Temps. Il quotidiano svizzero intervista Bernardino Fantini, storico della medicina: «Questo cambiamento di atteggiamento è legato soprattutto alla speranza di vita (…) All’epoca, le persone sopra i 65 anni erano considerate come delle “sopravvissute” alla mortalità naturale. Oggi anche la morte degli anziani è diventata “scandalosa”».
«Il diritto alla salute, affermato nel 1948 dall’OMS, è stato acquisito dalla cultura comune negli anni ‘80″. È considerato un diritto personale e deve quindi essere garantito dallo Stato. Nei secoli precedenti la morte era accettata: la gente moriva in guerra, moriva per Dio… era normale».
Il rapporto alla fatalità della morte, e alle sue cause, muta con il tempo. Dal soprannaturale (la Peste come punizione divina nel Medioevo) si va, via via, verso una razionalizzazione: «La querelle tra Rousseau e Voltaire sul terremoto di Lisbona è rivelatrice: rifiutando il fatalismo, Rousseau prefigurava la modernità, che diventerà una caratteristica della società occidentale del dopoguerra», dice Dominique Bourg, filosofo e professore onorario dell’Università di Losanna. Si passa dalla rassegnazione all’eccesso di fiducia. Un episodio fondamentale è quando, nel 1979, l’Oms dichiara il vaiolo debellato (una malattia che uccideva due bambini su cinque). L’umanità di sente capace di sconfiggere le malattie, dice Lugon su Le Temps — e di sconfiggere la morte forse — aggiungo io. Ma l’Hiv e poi l’Ebola, e ora il Covid-19, hanno messo questa certezza molto in crisi.
«Nel Dopoguerra, con la scomparsa della mortalità infantile e l’aumento del confort di vita, l’Occidente ha gradualmente sviluppato l’idea di un “capitale d’esistenza” garantito», continua Dominique Bourg su Le Temps. «Si pensa che solo l’incuria degli altri possa portare ad intaccare questo “capitale”». Da qui, secondo lui, la reazione fortissima, dei governi, per imporre il confino. È la conseguenza di un imperativo senza precedenti nella storia dell’umanità: salvare tutti?
«Queste misure sono il risultato di un atteggiamento di controllo, di un’attitudine che vuole sradicare la morte e la sofferenza. Cose oggi intollerabili, ma che erano accettabili nel 1968», dice sempre su Le Temps Enzo Santacroce, professore di filosofia.« La nostra epoca non può più tollerare fallimenti, offese o ostacoli. Dall’Illuminismo, che pensava che la felicità sulla terra fosse una possibilità, siamo passati all’imperativo di essere felici. Il coronavirus è un colpo inferto dal destino, vissuto come un’offesa».
Santacroce, in chiusura all’articolo de Le Temps, chiosa con un’idea molto semplice, che sto ritrovando a tratti, su forme diverse, su ragionamenti a volte distanti, nelle mie letture: «Dobbiamo poi ricordare, con Blaise Pascal, che c’è una grandezza nel riconoscere che siamo piccoli, e che una minaccia può anche portare alla scoperta di nuove risorse».
Un’umiltà, che non significa accettare, ma ammettere anche solo di non sapere. Di non sapere affrontare, di non sapere curare, di non sapere trovare la soluzione migliore; umiltà che potrebbe portare a ripensare, a mettere in discussione, ad ascoltare.
Dal lato della Storia — disciplina e mestiere che in questo momento ha tanto, tantissimo, da dire — sulle colonne di Mediapart, un intervento di Stéphane Audoin-Rouzeau, storico della Prima Guerra Mondiale, mi è sembrato importante:
«A mio parere le nostre società stanno oggi subendo uno shock antropologico profondo. Hanno fatto di tutto per allontanare la morte dai loro orizzonti, si sono affidate sempre più al potere del digitale e alle promesse dell’intelligenza artificiale. Siamo ora, invece, scaraventati alla nostra nostra animalità, alla “base biologica della nostra umanità”, come l’ha definita l’antropologa Françoise Héritier. Restiamo homo sapiens, appartenenti al mondo animale, attaccati da malattie contro le quali i mezzi abbiamo mezzi per batterci, sì, ma sono rustici rispetto alla nostra potenza tecnologica: stare a casa, senza medicine, senza vaccini… È davvero molto diverso da quello che è successo a Marsiglia durante la peste del 1720?
A questo richiamo del nostro substrato biologico si aggiunge un altro richiamo, quello dell’importanza della filiera di approvvigionamento: carente per farmaci, maschere o test, ma efficiente per quanto riguarda il cibo, in mancanza del quale si morirebbe o la coesione sociale si spaccherebbe. Da questa lezione di umiltà possono venir fuori cose buone a lungo termine, ma dobbiamo anche guardare in faccia la realtà».
La scelta della Quarantena, la decisione del confinement
Sul Sole24 Ore è uscito un articolo che si fa proprio questa domanda nel sottotitolo: “Perché nessuno pensò a chiudere tutto?”. Il testo purtroppo non risponde alla questione ma che in effetti è una delle grandi domande. Ancora una volta Patrice Bourdelais risponde (questa volta su Radio France International): la grande differenza rispetto alle precedenti epidemie del secolo è la quarantena: «Questo modello di contenimento, messo in atto dalla Cina, è stato ripreso in Europa dagli italiani e dai francesi.
Abbandonato dal XIX secolo, questo vecchio modello medievale era stato creato dagli italiani per controllare la peste: per quarantena, lazzaretto, cordone sanitario. Questo modello fu abbandonato, a partire dall’Inghilterra, intorno al 1860, e fu quello inglese a diventare il modello di gestione delle epidemie: un sistema neo-quarantennale, con un controllo medico per ogni nave che arrivava in un porto inglese. Le persone malate venivano mandate in un “Fever Hospital” o in un luogo dove potevano essere visitati ma restavano isolati per la settimana successiva. Questo sistema, molto più flessibile, non ha ostacolato gli scambi e il commercio, ed è stato mantenuto fino a pochi mesi fa. Sul piano storico siamo di fronte a una situazione nuova: è una vera e propria rottura, che ci riporta indietro di oltre un secolo e mezzo, alle epidemie di colera del 1831–32 in Europa».
Perché non si è parlato, quindi, dell’influenza di “Hong Kong”?
Francamente nessuna delle analisi qui sopra ha una risposta abbastanza convincente, o meglio, nessuna risposta è LA risposta. Non ci sono studi in proposito (o meglio, io non ne ho trovati) e le ipotesi fatte sono accettabili e convincenti ma non spiegano abbastanza. Non spiegano quel vuoto, non spiegano il pieno dell’oggi.
La differenza rispetto all’oggi — quando la Pandemia è diventata IL tema, perché tocca il privato e il pubblico della maggior parte dei cittadini del Pianeta — al quasi nulla di 50 anni fa, per quanto mi riguarda, è ricca di riflessioni e prospettiva. E di nessuna risposta, o nessuna che sono in grado di dare io naturalmente.
C’è un mondo globalizzato, più globalizzato del 1968 per trasporti, interconnessioni. L’influenza di “Hong Kong” è arrivata in Vietnam dalla Cina, portata negli Stati Uniti dai soldati americani e da lì è arrivata in Europa. «L’influenza di Hong Kong è la prima che si sposta con la velocità di un areo di linea», dice ancora Bourdelais.
Daniel Schneiderman si chiede, e chiede, se e quanto c’entri il fatto che oggi siamo nel momento delle news 24h su 24h. C’entra tanto, tantissimo. Ma nota anche che gli anni Sessanta sono il momento in cui le radio fanno già quel lavoro. Non è la stessa potenza di fuoco naturalmente della Tv e del Web e dei social oggi. C’entrano i social media, la loro capillarità, la loro viralità. Ma ancora, mi pare, sia solo una parte della risposta, una parte della complessità della risposta, almeno.
Non c’è un complotto (dei media, della Cina, della Russia, degli Usa, di Big Pharma o degli alieni) ma ci sono delle scelte diverse, che le nostre società fanno, dei cambiamenti di paradigma, dei cambiamenti antropologici, delle scelte politiche, delle scelte tout court.
Articolo originale qui, fa parte di una raccolta note sul confinement.
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