Parigi
Gli attentatori di Parigi, né praticanti né pii
Salah Abdeslam, l’attentatore di Parigi a cui la polizia di mezzo mondo sta dando la caccia, beveva birra e fumava spinelli in un pub di Bruxelles gestito da suo fratello Brahim e chiuso per spaccio di droga il 5 novembre scorso. Ashna Ait Boulachen, la ragazza esplosa durante il blitz di mercoledì scorso a Saint Denis, amava l’alcol e le droghe leggere e si interessava molto poco di religione e politica. Gli amici e i conoscenti di Abdelhamid Abaoud, l’uomo considerato la mente degli attentati terroristici, morto nel blitz di Saint Denis, dicono di non averlo mai visto alla moschea. Nessuno di loro, insomma, si comportava come un vero musulmano dovrebbe. Più conosciamo questa nuova generazione di jihadisti e più quelli che credevamo essere dei fanatici religiosi si trasformano in nichilisti suicidi.
Come suggerisce il politologo Olivier Roy, autore del libro di Santa Ignoranza, per capire il reclutamento dei nuovi jihadisti bisogna rifarsi alle sparatorie del liceo di Columbine del 1999. Abbiamo a che fare con una generazione di giovani esclusi che hanno interiorizzato l’odio per la società, che si sentono vittime e provano un fascino irresistibile per la violenza autodistruttrice. Forse ha ragione Roy quando dice che “L’adesione all’islam offre [ai nuovi jihadisti] una dimensione globale, anche un po’ mistica, un nome alla causa”.
Convertirsi su Google
Nel libro Les français jihadistes il giornalista David Thomson, uno dei maggiori esperti in Francia di jihadismo, intervista diciotto francesi di età compresa tra i diciassette e i ventotto anni partiti in Siria per arruolarsi nell’esercito di Daesh. I ragazzi ascoltati da Thomson hanno tutti origini e percorsi differenti: nove sono nati in famiglie di religione cristiana e altri nove provengono da famiglie musulmane non ortodosse. Solo due cose accomunano i diciotto ragazzi: l’inquietudine esistenziale e la ricerca della fede attraverso Internet.
Thomson racconta la storia di Constance (i nomi dati ai ragazzi sono di fantasia), una diciottenne cattolica praticante, cresciuta nella fattoria dei suoi genitori che allevano mucche e curano i campi nel bel mezzo della campagna francese. La ragazza si interroga sull’autenticità della sua fede e passa le giornate online per trovare una risposta fino a quando non entra in contatto con alcuni membri di Daesh. Nel giro di qualche mese eccola convertita all’islam e pronta a partire per la Siria senza aver mai incontrato un musulmano in carne e ossa in vita sua. Esemplare è la rapidità della conversione di Wilson: «stavo bevendo e fumando delle canne con gli amici quando sullo schermo del computer è comparsa una pagina che non capivo: era il Corano. Un mio amico me l’ha prestato e l’ho letto non-stop per tre giorni. Ho scritto delle sura su un pezzo di carta e poi una descrizione della preghiera che ho appeso al muro. Ho fatto la mia prima preghiera da solo a casa mia. Da quel giorno ho smesso di bere e fumare».
Partire per la jihad
Per tutti i giovani intervistati da Thomson il fine ultimo è la partenza in Siria per prendere parte alla guerra. «Con Internet – racconta Yassine – possiamo sapere tutto. Non smetto di guardare i video degli sceicchi di Siria su Youtube perché i veri sapienti dell’islam sono lì, sul campo di battaglia». Questi ragazzi cercano la guerra e l’adesione all’islam radicale sembra un modo per sacralizzare e giustificare il loro odio e la loro aggressività. Nulla a che vedere con l’intima ricerca di senso che accompagna un percorso spirituale. Per questo i jahidisti di Parigi non si comportavano da veri musulmani e non erano né praticanti né pii.
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