Cinema

Gérard Depardieu. Storia di un colpevole assolto

11 Giugno 2015

È andata così (Traduzione di A. Pezzotta Bompiani, 2015) è l’autobiografia di un’infanzia molto particolare e non solo perché appartiene a Gérard Depardieu, ma perché è un’infanzia che dura ininterrottamente da circa sessantasette anni. Con linguaggio rapido e vivido Depardieu rivive i suoi primi anni a Châteauroux: le origini umili (anzi umilissime), la famiglia complicata, i piccoli furti. Le esperienze violente e umilianti di una vita per strada fino all’arrivo, quasi timido e insperato su un palcoscenico di Parigi.

Corre Depardieu e nel correre non si ferma a chiedere scusa (sarebbe inutile e in realtà anche ingiusto), urta, inciampa e ingaggia monologhi rabbiosi seppure divertiti con il passato, con quello che è stato. Attraversato perennemente da uno stato di foga e di curiosità, Depardieu non dimentica nomi e cognomi e i suoi ricordi – a cui non pretende di dare la forma pesante e pomposa di una memoria – li butta in pasto al lettore, e sarà solo affar suo se potranno apparire scortesi o indigesti alla sua sensibile morale. La vita è una cosa sporca, odorosa e ingannevole e al corpo massiccio di Depardieu è venuto più facile e istintivo andare addosso alle cose che divincolarsene.

Gerard Depardieu

A Parigi conosce il teatro e con il teatro un maestro. Inizia così a recitare e recitare per Depardieu è imparare a parlare, a leggere e a guardare. Conosce Peter Handke e Marguerite Duras e diventa quell’attore straordinario noto a tutti. Ma saranno sempre e solo le sue spalle possenti a reggere il peso di un passato agreste e di un’abitudine all’istinto a tratti ferale, prima che con se stesso verso le persone amate. Il suo sorriso largo mostra i denti e strazia i figli così come le donne amate.

È andata così evita tuttavia l’odiosa e ipocrita fascinazione per la dannazione: Depardieu non è un oscuro tenebroso, ma un lussurioso vitale e gioioso, un inesauribile bulimico alla continua ricerca di una salvezza che gli è data solo a posteriori da una memoria onesta e non da un futuro da sempre segnato. È dal suo primo pugno, dal suo primo furto, dalle sue prime sbronze che Depardieu sa che non ha scampo e per questo se la gode con la rabbia di chi le cose se le prende perché non gli spettano e quel che gli spetta – come il suo mestiere capitatogli tra le grosse mani come per caso – lo accoglie con inusitata ingenuità e tenerezza (ma è sempre e solo un momento). Poi ritorna la corsa verso un futuro che è una terra straniera e un passato da colpire al cuore rinnegando sempre e comunque, prima di ogni altra cosa, tutto il meglio che è stato.

Non esistono rimpianti, ma dolori sì. E sono dolori forti e indicibili come abissi, come quello per un figlio capito troppo tardi e comunque quando ormai non era più necessario né per lui né per Guillaume. L’angoscia e il dolore per il figlio attraversano tutte le pagine del libro, le uniche in cui il rimpianto fa capolino segnando come un orologio il tempo che inesorabilmente comunque schiaccia e indebolisce le ossa come il cuore,

Un’autobiografia la si legge spesso per poter spiare in un passato più o meno losco, per la passione per il buco della serratura oppure per capire se la persona con cui abbiamo a che fare è davvero un amico come ci pare, oppure ancora perché alle volte la lingua sa coincidere splendidamente con il protagonista e la sua storia, come è avvenuto ad esempio con Open di Andre Agassi. Nel caso di Depardieu non è così, perché che era andata così l’avevamo intuito, ma come possa andare a finire per noi che leggiamo – persi nella paura di un errore di troppo – ancora non ci è chiaro.

Gerard Depardieu

In poco più di cento pagine Depardieu mostra la sua identità di ladro e di picchiatore, di puttaniere e di puttana, di attore e di amante, di padre e di padrone, di cuoco e di cacciatore: senza pudori e vergogne o falsa modestia. Più che mettersi a nudo si veste dei suoi abiti abituali fuori dalle formalità e dalle convenzioni. Il suo non è un rifiuto o una ribellione, ma il divertimento assurdo di percorrere sempre e comunque la strada sbagliata con la convinzione che non faccia poi così male, così come leggendolo è possibile accorgersi che non fa poi così male vedere cosa succede da quelle parti: fa paura, fa ridere, ma è anche irrazionalmente vitale.

Una volta chiuso il libro è così possibile per ognuno tornare alla propria famiglia, al proprio lavoro, ai propri sani e discreti affetti, alle proprie legittime e misurate ambizioni sapendo però almeno un po’ di più e meglio di prima che l’alternativa tanto desiderata alla noia e alla suscettibilità quotidiana c’è e sta in quell’angolo dimenticato che è dalle parti dell’infanzia, là dove tutto è possibile: una risata improvvisa come una rabbia imprevista, l’amore assoluto e l’abbandono più totale. In fondo basta non pensarci troppo e farsi una storia.

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