Geopolitica

Viaggio al termine della Francia (per come l’abbiamo conosciuta)

20 Aprile 2017

«Sembra di essere in Algeria, non in Francia». Così un avvocato di Lione definisce il clima che si respira nel suo paese a pochi giorni dal primo turno delle presidenziali, e prima che gli ultimi, tragici fatti, a Parigi, arroventino ulteriormente un clima già incandescente. «Sa, io sono abbastanza vecchio da ricordarmi le presidenziali del 1965, e mi sembra siano passati mille anni da allora. Là a sfidarsi erano due giganti del Novecento, De Gaulle e Mitterrand. Oggi i candidati sono ridicole parodie». L’avvocato non vuole rendere pubblica la sua identità («non ho bisogno di popolarità») però rivela a Stati Generali chi voterà: «Macron, ma solo per far contenta mia figlia. E se vince la Le Pen, o Mélenchon, chiudo tutto ed emigro con mia moglie in Svizzera».

Julien Desroche, 35 anni, fa il traduttore dall’italiano al francese. Viene da Poitiers, dove nel 732 Carlo Martello fermò la conquista araba dell’Europa (o almeno così sostengono alcuni storici). «Questa campagna elettorale è stata assai poco politica, mi è sembrata un reality show – dice – Si è trattato di uno spettacolo di cattivo gusto, punteggiato dagli scandali, in particolare quelli riguardanti Fillon». A suo parere, la campagna è stata un riflesso «dei mali che affliggono la società francese. Una società che non sa più amare, dove ognuno pensa solo a sé. Oggi in Francia si fa politica per interesse, non per convinzione… Lo sa che i deputati, da noi, ricevono, oltre a generosi stipendi, 10mila euro per pagare gli stipendi dei propri collaboratori? È un business fare politica, in Francia».

Desroche apprezza soltanto Hamon, il candidato socialista. «Ha buone idee, è l’unico a dire cose di sinistra. Su tutte il reddito universale, che un tempo sarebbe stato salutato come un’iniziativa progressista, e che oggi è osteggiato da tutti, persino all’interno del suo partito». Per dispiacere del traduttore, Hamon non ha nessuna speranza di arrivare al ballottaggio. A differenza della Le Pen, che ha alte probabilità di arrivare al secondo turno. Di più: ha qualche chance di arrivare persino all’Eliseo, almeno secondo personaggi come il fisico Serge Galam, che vede nell’astensionismo di massa la chiave per una sconcertante vittoria della Le Pen al ballottaggio. Nel 1981 il Front National raccoglieva lo 0,18% dei voti.

«Marine Le Pen ha condotto un’efficace strategia di “dédiabolisation” del suo partito, e intrapreso una trasformazione del Front National in un partito all’apparenza “come gli altri”, pur continuando a denunciare fortemente il sistema “UMPS” [la sigla si riferisce ai due partiti principali, i Repubblicani ex-UMP e il Partito Socialista]» spiega Michelle Zancarini-Fournel, docente di storia contemporanea all’Università Claude Bernard di Lione.

Il successo del Front National è uno smacco immenso per il Partito socialista, un tempo la forza politica di riferimento di colletti blu e studenti, e oggi disdegnato tanto dai primi che dai secondi. Lo conferma l’accademica: «Marine Le Pen pretende di parlare e agire “in nome del popolo”, e blandisce i gruppi un po’ trascurati o che si sentono abbandonati: i contadini, gli abitanti delle campagne, gli operai o gli ex operai disoccupati e via discorrendo. Del resto il Front National è diviso in un Front del nord e dell’est, più popolare, e uno del sud più identitario, anti-immigrati, che raccoglie le classi medie».

Certo, se anche la Le Pen dovesse vincere le presidenziali, riuscendo dove suo padre nel 2002 fallì contro Jacques Chirac, si tratterebbe comunque di una vittoria menomata. Lo spiega Riccardo Brizzi, professore associato di storia contemporanea all’Università di Bologna: «Le legislative che si terranno l’11 e il 18 giugno rappresenteranno un inedito terzo turno delle presidenziali. Mentre negli ultimi 15 anni (nel 2002, nel 2007 e nel 2012) le legislative hanno sempre ratificato il voto presidenziale, questa volta la cosa non si ripeterà, con tutta probabilità». Una Le Pen all’Eliseo avrebbe dunque una strada irta di ostacoli in Assemblea Nazionale; anche Macron faticherebbe a trovare una maggioranza.

Naturalmente la strada non sarebbe in discesa neanche per il conservatore François Fillon, candidato dei Repubblicani. Lui però può contare almeno su un partito relativamente solido. Ben diversa la situazione del Partito socialista, che un imprenditore di Nizza, parlando con Stati Generalia, definisce «obsoleto, sull’orlo dell’estinzione, come il Partito comunista in Germania est nel 1989». L’imprenditore, per sua stessa ammissione nostalgico di Sarkozy, esagera, ma il partito che fu di Mitterrand appare davvero allo sbando, e l’impopolarità del presidente Hollande sfiora il parossismo. Ecco perché Hamon è condannato, in queste presidenziali: oltre a dover fare i conti con le lacerazioni interne al suo partito, ha fatto parte dei tre governi socialisti che si sono succeduti sotto i primi due anni della presidenza Hollande. Una macchia imperdonabile, per molti francesi. «Quello di Hollande è stato un quinquennato disastroso – osserva Brizzi –. Era arrivato all’Eliseo cavalcando l’anti-sarkozysmo e presentandosi come un “presidente normale”, in grado di riportare la funzione presidenziale alla sua sacralità. Doveva essere un presidente più tradizionale, e dallo stile più austero. Ma non ha mantenuto le premesse».

Si è passati quindi dall’iper-presidenza bling-bling di Sarkozy, criticato dai media tanto per lap che per lo stile di vita controverso, a un presidente debole, ambiguo e contraddittorio, vulnerabile sul piano personale – si pensi alla vicenda dell’ex compagna Valérie Trierweiler, autrice dello sconvolgente libro autobiografico Merci pour ce moment, e alle rivelazioni della relazione segreta tra il presidente e la giovane attrice Julie Gayet. La presidenza Sarkozy e quella Hollande sono state le forche caudine della Quinta repubblica, ormai in piena crisi di legittimità: specialmente agli occhi di un popolo che quando elegge un presidente vorrebbe quasi incoronare un monarca, una figura carismatica dall’aura semi-sacrale. «In Francia non è come in Italia. Il nostro presidente deve essere un po’ un Re Sole», nota Desroche. Ciò contribuisce a spiegare anche il successo di Le Pen, Macron e Mélenchon: tre candidati alternativi ai due dei partiti istituzionali, e dotati, ciascuno a suo modo, di carisma e persino di fascino.

Il declino ha però radici più antiche, osserva Rémi Dalisson, storico contemporaneo dell’Università di Rouen. «Le elezioni presidenziali non sono più una “festa della Repubblica” dal 2002, quando al ballottaggio contro Chirac arrivò Jean-Marie Le Pen. A mio parere però dal 1962 in poi si dovrebbe parlare di “festa del presidente” più che di “festa della Repubblica”, dato che in quell’anno De Gaulle decise che il presidente sarebbe stato eletto direttamente dal popolo. La nostra è una costituzione molto presidenziale, del resto, il capo dello Stato ha parecchio potere, più dell’Assemblea…»

Per Paola Persano, docente di storia delle dottrine politiche dell’Università di Macerata, «il rapporto tra la politica e il sacro è stato a lungo il punto fermo di tutta una storiografia politica francese che, fin dai tempi di Tocqueville, ha insistito sul significato della secolarizzazione dei moderni poteri pubblici». Secondo la studiosa, «questo processo di laicizzazione del sacro sembra aver imboccato, nell’epoca del massimo disincanto e disaffezione politica, la strada inedita della crescente “de-sacralizzazione” della funzione presidenziale; qualcuno ne colloca il momento di avvio negli anni ‘80 del secolo scorso, e con Hollande essa avrebbe acquistato un’ulteriore coloritura, quella della “normalizzazione”: dal Presidente, figura laicamente sacra di una Repubblica analogamente sacralizzata, si è passati all’uomo normale candidato a presiedere una Repubblica svuotata di ogni trascendenza politica, e in profonda crisi di immanenza».

Non stupisce che la crisi di legittimità dell’istituzione perno della Quinta Repubblica generi tensioni anche in un ambito delicato, ma cruciale, come quello della memoria collettiva. Nel corso di questi mesi si sono toccati nervi ancora scoperti come la perdita dell’Algeria, e Vichy. Che rimane «un point sensible in Francia, perché la storia non è finita. Gli storici hanno dimostrato che lo Stato francese fu responsabile della deportazione degli ebrei senza aver ricevuto ordini in tal senso dai nazisti – rileva Dalisson –. E ciò è ancora molto imbarazzante per parecchi politici, specie di destra ed estrema destra».

L’imbarazzo e la crisi di legittimità della presidenza si saldano con una pulsione nazionalista e reazionaria che sembra rifiutare alcuni dei valori fondanti della Repubblica. Secondo Persano «oggi il richiamo alla République appare svuotato dall’interno, segnato da una crisi profonda e irreversibile, che è poi il riflesso della crisi più generale che ha investito praticamente tutte le categorie della modernità politica occidentale» Dentro questo quadro complessivo, nota, «alcune forze politiche più di altre fanno professione di fede anti-repubblicana, talvolta per convinzione, talaltra per una fine strategia politica tesa a marcare la distanza da un passato ingombrante, e perciò tutto da liquidare. Della vocazione anti-casta della Le Pen si è detto e scritto tanto; più interessante forse la postura di Fillon, liberale che della lezione repubblicana ha intenzionalmente smarrito la vocazione solidaristica. Il suo liberalismo è sostanzialmente, se non formalmente, anti-repubblicano».

C’è poi il caso Mélenchon, che secondo gli ultimi sondaggi se la gioca per il terzo posto con Fillon. Già, i sondaggi: quei sondaggi che vedono quattro candidati (Le Pen, Macron, Mélenchon e Fillon) potenzialmente in grado di arrivare al ballottaggio (con percentuali fra il 18 e il 24%), rendendo di fatto poco credibile ogni pronostico.  Come chiarisce a Gli Stati Generali Marc Lazar, professore di storia e sociologia politica alla Sciences Po di Parigi e alla LUISS di Roma, «Mélenchon è riuscito a sorprendere tutti. È riuscito ad andare oltre il suo bacino tradizionale di elettori, conquistando una parte dell’elettorato verde, grazie a un programma con molti elementi attenti all’ambiente; ancora, è riuscito a svuotare il bacino elettorale di Hamon, incassando il voto dei delusi del Partito socialista».

C’è poi un altro elemento che sta rafforzando Mélenchon: la sua svolta populista. Nota Lazar: «Attualmente lui non si presenta solo come il candidato della sinistra. Ha vietato in tutte le manifestazioni di cantare l’Internazionale, ha vietato nei comizi di esporre la bandiera rossa, sono ammessi solo i tricolori francesi. La sua parola d’ordine è la “forza del popolo”. Sta cercando di fare come Podemos in Spagna, o in un certo senso come il M5S in Italia. Opporre il popolo alla casta, cercando di allargare così il suo consenso. In questo modo sta facendo breccia persino nel voto operaio, che normalmente va alla Le Pen». E se Mélenchon guarda (anche) a Grillo, «Macron ha seguito con grande attenzione ciò che ha fatto Renzi», conclude Lazar.

La stima, del resto, sembra essere reciproca. Non è difficile immaginare, qualora Macron venisse eletto presidente, e Renzi tornasse, contro ogni attuale pronostico, a Palazzo Chigi, un asse tra Parigi e Roma in grado di rafforzare Parigi nel suo rapporto con Berlino. Oltre a essere quasi coetanei (il toscano è del 1975, il francese del 1977) i due leader condividono una certa attitudine volontaristica e un profondo pragmatismo post-ideologico. E come il Renzi dei primi tempi, pure Macron è apprezzato dai media istituzionali. «Macron è ovviamente il cocco dei media – osserva Guillaume Jobin, presidente della École supérieure de journalisme –. Sono stati sollevati alcuni interrogativi circa la reale sostanza e le vere cause di questa impennata mediatica a suo favore».

Diverso è il caso dei social media. Qui i favoriti sono la Le Pen e Mélenchon. Quest’ultimo, in particolare, è un maestro nell’uso del web. Preziosa, a questo riguardo, l’opinione di Pierre Sorlin, noto storico del cinema e grande conoscitore dei media. «La campagna di Mélenchon è la più interessante e intelligente. Il suo programma è un sogno ma non importa: gli elettori non leggono i programmi perché hanno capito che sono tutti inattuabili. Mélenchon lo sa, e infatti ha scelto lo spettacolo, diverte il suo pubblico. È un ottimo oratore, non dice niente con una convinzione, una forza che non entusiasmano l’audience». Ne è una prova l’uso in campagna elettorale degli ologrammi, che Sorlin ritiene «un’innovazione geniale. Molti hanno assistito al discorso virtuale di Mélenchon soltanto per il piacere di vedere la novità (e gli altri non potranno fare lo stesso, troppo tardi!)».

Il sostegno dei grandi media a Macron è forse un riflesso del credito che l’establishment sembra voler accordare al giovane leader centrista, specie dopo la tempesta mediatico-giudiziaria che ha indebolito Fillon. A differenza di quanto accaduto negli USA, dove una delle due anime dell’economia americana (quella agrario-idrocarburica) si è schierata con Trump, con la Le Pen c’è poca “Francia che produce”: qualche piccolo o piccolissimo imprenditore, un po’ di agricoltura. Al contrario, la grande industria, le banche e la finanza stanno quasi tutte con i dioscuri liberisti Fillon e Macron. Per rendersene conto, basta dare un’occhiata alla tabella online del quotidiano conservatore Le Figaro che compara i programmi dei vari contendenti: per quanto concerne l’economia, le aziende e la fiscalità, 6 volte su 12 le posizioni dei due candidati sono molto simili, e solo 2 volte agli antipodi. Il quotidiano di sinistra L’Humanité ha facile gioco, dunque, a titolare “Macron et Fillon, les deux faces d’un même libéralisme”.

Sia Macron sia Fillon hanno un obiettivo: rendere più competitivo un paese che osservatori interni e internazionali considerano poco attrezzato per affrontare le sfide del XXI secolo. «Si parla molto del conservatismo francese. Dipende dal campo di cui si parla – distingue Alessandro Stanziani, directeur d’études presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales –. In tema di immigrazione, la reazione ostile è comune a tutta l’Europa, continente che invecchia male. Difficile misurare se un paese sia più ostile di un altro: i voti per Marine Le Pen non sono soltanto una risposta all’immigrazione. Invece, i veri problemi in Francia sono il radicalismo laico e la ghettizzazione di immigrati e di popolazioni non europee, soprattutto musulmane. La fissazione sul velo, accompagnata dal problema delle banlieues, produce una miscela esplosiva». Ancora, sul mercato del lavoro, «la Francia è molto più rigida che altrove. Il problema è duplice: da una parte i sindacati rappresentano ormai molto poco la base dei lavoratori e difendono i privilegi di pochi, dall’altro lato l’instabilità sociale senza welfare, come altrove, esaspera ancora di più le diseguaglianze e favorisce gli estremismi».

Il punto di vista strutturato di Stanziani è condivisibile. La Francia ha tanti problemi, in primis demografici, politici e soprattutto sociali. A livello economico se la cava meglio di quanto non si dica. Nel 2017, secondo le stime del FMI, il PIL francese dovrebbe crescere dell’1,4% (contro l’1,6% tedesco), nel 2018 di oltre l’1,6% (+1,5% in Germania) e nel 2019 dell’1,7% (+1,4% oltre il Reno). In altre parole, la seconda economia dell’eurozona sembra essere posta su una traiettoria ascendente di cui si prenderà il merito il prossimo presidente, ma che è stata resa possibile anche dalle riforme varate sotto Hollande.

«I francesi sono sempre molto pessimisti riguardo la loro economia. Troppo pessimisti, a differenza dei britannici, che tendono invece all’ottimismo – dice l’economista Alan Kirman, docente emerito presso l’Università Aix-Marseille –. L’economia del paese non è così male, chi vive qui vive ragionevolmente bene. È vero, ci si lamenta per il debito troppo grande, ma non si sono mai pagati interessi così bassi. Le infrastrutture funzionano bene, la Francia esporta molto: a Boston, per esempio, il trasporto pubblico è gestito dai francesi, in tutto il mondo circolano treni costruiti qui in Francia, e non dimentichiamoci dell’Airbus. Io sono relativamente ottimista in merito all’economia francese. O meglio: lo ero fino a queste elezioni».

Il mercato del lavoro francese è iper-normato, nota l’economista britannico, «ma nei paesi dove si deregolamenta, non è scontato che si faccia meglio». Si tende forse a sottovalutare, invece, l’inventiva e le competenze del capitale umano transalpino. «I francesi sono forti in settori innovativi come la medicina, le biotecnologie, la robotica, il nanotech». Le parole di Kirman sono confermate dai fatti. Parigi, per esempio, sta diventando il nuovo centro dell’innovazione tecnologica europea, e una mecca del venture capital. Fior di ricercatori italiani in settori come l’intelligenza artificiale o il blockchain sono emigrati in Francia, dove trovano stipendio e opportunità di carriera. Tra pochi mesi sarà inaugurato nella capitale Station F, il più grande incubatore di startup del mondo. Aziende come la piattaforma di car pooling BlaBlaCar, nata a Parigi, sono diventate in pochi anni giganti di rilevanza globale.

Probabilmente l’elezione di Fillon o Macron sarebbe, almeno nel breve termine, una manna per questa nuova Francia hi-tech, lontana anni-luce dalla Francia periferica, rurale, che vota la Le Pen laudatrix temporis acti e sogna di sigillare le frontiere e tornare al buon vecchio franco. Nel lungo periodo, però, politiche economiche troppo liberiste potrebbero sortire l’effetto di buttare via, con l’acqua sporca, anche il bambino: ad esempio una sanità e un sistema accademico gratuiti, e che nel complesso funzionano bene; un welfare state che non è esente da pecche, ma che è cruciale per milioni di cittadini. Non solo: difficilmente le crescenti tensioni sociali del paese potranno essere risolte con un semplice aumento degli organici di polizia, o liberalizzando il mercato del lavoro. Che vinca Fillon o Macron, il nuovo presidente dovrà preoccuparsi anche dell’altra Francia: quella che vive nelle banlieues, che non ha una laurea o che lavora la terra; quella che vota il Front, o che magari non vota affatto. Quanto a una vittoria della Le Pen, o di Mélenchon, è tutta un’altra storia. Comunque andranno queste elezioni, la Francia non sarà più la stessa.

 

Foto in copertina di Benh Lieu Song – Creative Commons Wikipedia. Le pont des Arts, Parigi.

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