Economia
Boots on the ground? Il problema è un altro
Sappiamo tutti cos’è successo Venerdì 13 novembre. A differenza di (molti) altri non ho competenze per discutere o approfondire l’argomento, se non, come essere umano, la capacità di provare compassione infinita per l’orrenda barbarie che ha insanguinato le strade di Parigi. Eppure qualcosa deve essere fatto. Qualcosa dovrà pure essere detto per non rendere vano il sacrificio di centinaio di persone. la devastazione di un’intera città. Il silenzio mai come in questo momento NON è d’oro. Come non lo è il vociare irriflesso, la bulimia da tastiera, la condivisione senza comprensione.
Ribadisco: non ho ricette né soluzioni. Ho qualche riflessione da condividere. Riflessioni nate alla luce di una settimana, questa sì entusiasmante, trascorsa tra le mura di BASE Milano, alla Collaborative Week. 8 giorni di discussioni, workshop, seminari, conferenze ed eventi su tema dell’economia collaborativa (o sharing economy), su come cioè quest’ultima possa impattare sulle pratiche sociali ed economiche delle nostre città e delle nostre comunità. Dalla casa al lavoro, passando per il consumo collaborativo e la mobilità condivisa, centinaia di persone da tutto il mondo si sono incontrate a Milano per discutere proprio su come rendere la nostra società più trasparente, più collaborativa e, in ultima analisi, più ricca di opportunità. Ripensare tutto ciò alla luce degli attentati di Parigi può sembrare naive, quasi fuori luogo, eppure qualcosa mi dice che in quei discorsi e in quelle conversazioni ci sia più speranza e più lucidità che nelle mille disquisizioni su sciiti e sunniti o sul contenimento dello Stato Islamico che leggiamo in queste ore.
In altre parole se vogliamo davvero vincere la Terza Guerra Mondiale (Papa Bergoglio docet) più che scarponi sul suolo, il famigerato boots on the ground in qualche area sperduta del Medio Oriente, occorrerebbe concentrarsi su come rendere più inclusiva e sociale la nostra società, prosciugando il brodo della cultura in cui prospera il recruitment fondamentalista. In questo senso l’economia collaborativa o meglio i suoi dispositivi possono fare molto: il laboratorio sviluppato con Cristian Iaione sulle co-città, le possibili sinergie in tema di politiche attive del lavoro tra Municipalità e coworking (e fablab), il ruolo delle social street nella ricucitura delle nostre slabbrate periferie, tutto questo può rendere il nostro ecosistema urbano più umano, molto più umano. Nessuno pensa di sconfiggere il fondamentalismo con gli orti sociali, ma di certo una maggiore attenzione a quello che accade qui e ora servirebbe a ri-orientare il nostro focus, a non cadere nell’abbaglio di credere che il terrorismo abbia una testa, “mozzata” la quale tutto tornerà, quasi per magia, come prima. Il terrorismo così come l’antisemitismo, il cosiddetto socialismo degli imbecilli per citare Lenin, non ha una testa, un centro nevralgico da cui sgorgano informazioni e input, ma si configura come un coacervo di nodi distribuiti lungo un network globale dell’odio (di sé e degli altri).
Mai come in questo caso vale la regola del “pensare globale e agire locale” e quando si dice locale si intende proprio a livello di prossimità, di quartiere, di municipio. L’economia collaborativa può essere uno strumento utile per la sua capacità di creare relazioni, produrre valore sociale condiviso e sviluppare occasioni di integrazione, rendendo così più resilienti le nostre comunità, più autoimmuni al morbo nichilista che si annida nelle pulsioni suicide di tanti giovani. Mi sbaglierò, ma la guerra al terrore si vince in primo luogo nelle nostre città, nelle nostre strade e nelle nostre periferie. Almeno proviamoci.
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