Costume

Racconto domenicale siciliano semiserio III

9 Giugno 2018

Il vecchio Jo Macaluso – ricordate quello che tornò a Roccaducina – oltre a Michael – ricordate quello che avrebbe fatto meglio a leggere qualche resoconto o libro sulla Sicilia prima di andarvi a fare campagna elettorale-massacro – aveva un altro nipote Domenico, detto Mimì. Lui aveva studiato nella città Rocca di Bellavista, quando in famiglia si era diffuso il panico per via di certe avvisaglie di clan che indussero una sorta di fuga diasporica verso altri lidi. Tornato in America e passati gli anni, anche Mimì senti l’impulso fortissimo di tornare a Bellavista per riandare sui luoghi della giovinezza. Approdato in città, si era fatta già un’idea di dove andare.

Bellavista era cambiata. Una capitale moderna con tutto quel che di negativo ciò comporta. Traffico a dismisura, concerto a toni elevatissimi per orchestra di soli claxon, rifiuti vaganti e itineranti per strada. Mendicanti che, a differenza degli homeless, a tarda sera chiudevano bottega e tornavano a casa.

Provò ad andare verso il Collegio di gesuiti dove aveva studiato. Erano anni molto bui per la città. La prima e seconda guerra di mafia l’avevano insanguinata. La memoria andò alla Pasqua dei suoi 16 anni quando successe quello che mai più avrebbe dimenticato. Il Padre Guardiano gli aveva affidato un compito ben preciso.

-Mimì beddu mio, chisti sono i piccioli. Vai da Fefè il pescivendolo e fatti dare 5 spigole da fare al forno. Frische, mi raccomando.

Mimì si avviò nella mattinata di sole primaverile che, grazie al meteo sempre piacevole della città, scaldava l’atmosfera prepasquale gravida di vacanze e dolciumi. Avviatosi verso via Sciuti, a circa 300 metri dalla Pescheria, vide il traffico impazzire. Una Alfa Giulia sgommò, uscì dalla fila e si piazzò di traverso davanti la pescheria. Mimì si arrestò come avesse prefigurato la scena. La scena di un film, ma questa volta in diretta. Dai finestrini del lato destro comparvero armi, poi si seppe Kalashnikov, e una salve di pallottole si scaricò sugli avventori che occupavano il locale della pescheria. Caddero prima quelli dell’ultima fila e poi, come birilli, quelli davanti finchè le pallottole non ebbero spazio per colpire i veri bersagli: Fefè e i suoi figli che appartenevano alla Famiglia dei Vinci, boss di quel quartiere. Bilancio: 21 morti più un ragazzino di 15 anni morto anche lui ma di paura, ch’è peggio.

Mimì tremando ritornò al Collegio e raccontò tutto. Il Padre Guardiano lo rassicurò: Non ti scantare ( spaventare) tanto si cònsano (ammazzano) tra di iddi.

Ma il ragazzino non dimenticò. Così come non dimenticò i suoi compagni di classe. Molti di questi divennero professori universitari, politici, magistrati, anche inquisiti ma, si sa, quello in fondo era un viatico da sopportare se si vuol fare una carriera pubblica.  Negli anni, del gruppetto emerse Anton Maria, divenuto poi Sindaco di Bellavista. Erano molto amici e in confidenza. Era un predestinato, come avveniva in casa Kennedy, e dunque avrebbe fatto carriera politica. Deciso in Famiglia e stop senza discussioni. A lui, molto ambizioso, andava bene e tatticamente si aggregò ad un nucleo di politici amici sì ma vincenti anche. Anton Maria era un perbene e non fu mai inquisito. A lui interessava il potere politico, non i soldi, in fondo aveva una morale rispettabile e ineccepibile. Il resto scivolava nel piano inclinato della sua totale indifferenza.

Il vero potere in Sicilia non è quasi mai il “potere di fare qualcosa”. E’ potere e basta! E gli venne in mente un altro episodio sul personaggio. Che strana vicenda, molto simile a quella descritta nel Padrino. Mimì si innamorò e sposò una notabile locale che poi morì giovanissima, prima che lui ritornasse a NYC. Prima delle nozze, le propose che a  avrebbe potuto sposarli Anton Maria e così andarono da “ ’u Sinnacu”. In realtà la giovine sposa lo conosceva già essendo stata sua allieva all’Università.

Entrano dunque in questa magnifica sala adibita a studio del Sindaco. Stretta e lunga, ci entravano almeno 4 normali abitazioni ma la distanza dalla porta al tavolo, megagalattico di noce intarsiata, serviva a mettere in soggezione il malcapitato che aveva a che fare con il Sindaco. Finalmente, dopo qualche minuto, arrivano al tavolo. Convenevoli, presentazioni e poi un lungo interminabile monologo sulla città, sul suo ruolo di innovatore, sulla primavera Bellavistana (effettivamente correva il mese di aprile).

Poi ad un certo punto…” e così quando diventerò Presidente del Mondo…” La giovane dà uno strattone a Mimì e sussurra …” ma che dice…” ed lui di rimando…” non farci caso…è stato sempre così…

La passeggiata rievocativa lo porta, poi, in piazza della Rivoluzione. La zona vecchia della città, non tanto per il nome obsoleto della piazza, quanto per i ruderi dei bombardamenti di circa 75 prima, ancora lì a far mostra al mondo dell’incuria urbanistica. Ruine ormai ridotte a valore museale a cielo aperto. Orride ma necessarie a chiedere i fondi europei con rituale cadenzato.

Lì abitavano i De Consalvo, nobile famiglia di Bellavista già in decadenza quando erano ragazzi. Mimì pensò che ormai le sorti della famiglia si saranno intrecciati con il destino del palazzo, ormai fatiscente e distrutto dalle contingenze e dalla crisi.

L’edificio, fiero esemplare del barocco migliore, ma fatiscente, reca ancora le vestigia di fasti interrotti dalla storia. Un ricordo tra tutti affiorò. Una sera di sabato, Ortedo, il suo compagno di scuola, organizzò una festa nelle scuderie del palazzo. Dovete sapere che in ogni palazzo gentilizio di Bellavista le scuderie sono state derubricate a rango di garage per le vetture. Quello dei Consalvo no! Loro ci parcheggiavano le carrozze che, dal XVII secolo in avanti, hanno attraversato le strade di Bellavista e la storia della città. La variante che Ortedo aveva previsto per quella sera era di destinare a ogni coppia una carrozza per ogni forma di trastullo nel segreto della bettolina. Giochi di ex-ricchi ed ex-potenti che a Bellavista si chiamano “sfasulati” sans argent sans rien payer, insomma.

Si avviò poi verso il quartiere del mercato all’aperto, così ben affrescato in un dipinto di un celebre pittore locale.

Il concerto dei claxon cessò subissato da quello delle voci dei venditori, un vociare assordante che conferisce il nome al Mercato stesso. Il rituale delle vendite, annunciate da urla incondizionate, si intercalava con annunci in codice come nella scena della Kasbah di “Totò le Mokò”. Strani ragazzini in motoretta si alternavano portando piccoli sacchetti da un posto all’altro. Facile immaginare cosa contenessero quei sacchetti.

Ricchi e poveri direte voi? No, ex ricchi diventati poveri e nouveaux riches mimetizzati da poveri. O da politici perché a Bellavista, o sei Barone o sei Presidente di qualche cosa.

Il mondo di mezzo a Bellavista qual è allora? Beh, forse non c’è perché trasferito nelle città più importanti a “fare piccioli”. Nelle sedi della Finanza Alta, che assorbono quel clamore e quella congestione che altro non sono che mimetizzazioni buone per i turisti.

Per ultimo il Castello sulla Rocca. Dall’inizio del XX, sulla città incombe maestoso un Castello, celebre per aver ospitato al suoi interno il primo ascensore d’Europa all’incirca nei primi anni Venti. Mimì andò con i ricordi alla primavera del 1959. La Rocca incombe e sovrasta la città, imponente come un sultano arabo che controlla il suo harem, sembra quasi osservare il dinamismo della città e proteggerla. E il maniero è un tutt’uno con la Rocca, incombente eppure rassicurante quando ti svegli al mattino e lo vedi lì fisso, sempre dello stesso colore, dello stesso umore, sempre privo delle nuvole a pennacchio.

In quella primavera il panorama cambiò. Un enorme pannello illuminato, visibile a notevole distanza, lo ricopriva interamente e ne toglieva l’aspetto rassicurante. Il pannello infatti sembrava dire minaccioso: attento, d’ora in avanti le cose cambiano, è arrivato un nuovo partito, la politica siamo noi, l’U.S.C.S. Sigla orrenda, poco pronunciabile, inquietante. L’Unione Siciliana Cristiana Sociale, ecco svelato l’acronimo, era volgarmente conosciuto come il partito di Silvio Milazzo. Già deputato regionale democristiano, di Caltagirone come Don Sturzo e Scelba, era divenuto nel 1958 una clava per la DC, aveva mandato a casa il Governo La Loggia e si era insediato con un’anomala maggioranza di estremi confluiti, PCI e MSI.

Per strano e coincidente ricorso storico, lo stesso sta avvenendo in questi giorni con il Governo nazionale, una sorta di riedizione di quell’ibrido politico di 60 anni addietro.

Già, è proprio vero che la Sicilia ha esportato cervelli, dialetto, poi reso caricaturale, e laboratorio politico. Nihil sub sole novi in mundi ombelico.

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