Letteratura

“La Luce è là” di Agata Bazzi

4 Agosto 2019

Un grande racconto che, pur ambientato a Palermo, sfiora appena la storia e le vicende di questa tanto straordinaria quanto complicata città. Potrebbe essere questa la sintesi superficiale di La luce è là corposo romanzo di Agata Bazzi, edito da Mondadori, la cui cifra di scrittura ricorda molto la la tecnica tipica della letteratura tedesca del XIX e inizio XX secolo.

Sì, perché in effetti il contesto ambientale dove si svolge l’intera vicenda degli Ahrens, pur importante e significativo in quanto influisce sulla vita dei protagonisti, diviene una cornice esterna, spesso ambigua, rispetto alla storia raccontata; la storia di un uomo e della sua famiglia, i cui i segni identitari, quelli della cultura germanica e dell’ebraismo (anche se non praticato), costituiscono il pezzo forte.

La storia di Albert Ahrens, un piccolo uomo di salute cagionevole che, dalle brume del nord, raggiunge Palermo, in un momento felice della sua vicenda economica e civile, e qui manifesta i suoi già sperimentati talenti commerciali e imprenditoriali,  coronati dal successo e dal benessere economico.

Una storia singolare, quella di Albert, che lo vede protagonista attivo della vita economica della città ma anche – diversamente da tante altre storie simili di imprenditori o commercianti stranieri piovuti nel corso del secolo XIX a Palermo – custode rigoroso della propria identità culturale, della sua germanicità che conserva attraverso anche il culto della lingua e degli stili di vita improntati ad una sobrietà che ha ben poco a che fare con la cultura della società bene palermitana; segno di questo suo essere eguale ma anche diverso la sua condotta familiare.

Una famiglia, quella degli Ahrens, su cui domina la figura di  Iohanna, moglie di Albert, colta amburghese che fonda una sorta di matriarcato familiare essendo riferimento di saggezza e di guida nel governo della casa.

Anche la villa, desiderata e fatta costruire da Albert, nella quale trova rifugio al culmine del successo testimonia la diversità segnalata,  villa Ahrens marca infatti la lontananza rispetto alla società palermitana, una distanza che è ulteriormente accentuata dalla rigida educazione in stile amburghese dei numerosi figli; ben sei femmine e due maschi, ciascuno con personalità e sensibilità ben definite.

A Villa Ahrens si parla tedesco, si legge la stampa tedesca, si consumano le specialità culinarie germaniche e,  proprio per garantire questi standard di vita, arrivano dalla Germania cuoche, governanti, cameriere tedesche.

Insomma una realtà “altra” che, tuttavia non deve essere però interpretata come voglia di mettere in evidenza una pretesa superiorità rispetto al contesto cittadino nel quale, tuttavia, si iscrive, basta pensare  ai matrimoni che le signorine Ahrens, contraggono.

Nessuna di esse sposa un tedesco, sposano invece tutte dei siciliani che, in qualche modo, rappresentano spaccati emblematici della società siciliana.

Dal socialista Raja, laico che crede nella modernità e che vede nelle condizioni sociali degradate delle classi subalterne siciliane un ostacolo forte che si frappone alla crescita e allo sviluppo dell’isola, al nobile Vito Burgio che incarna i vizi antichi, il peggio dello stile di vita degli aristocratici siciliani, ai due fratelli Morello, esponenti anch’essi della aristocrazia, ma di quell’aristocrazia – purtroppo molto minoritaria – con la consapevolezza che proprio quel “fare”, così odiato dai siciliani, costituisce invece la chiave necessaria per aprire la porta del domani.

Ma l’isolamento, la separazione, seppure interrotto dai matrimoni delle figlie e dalle tragedie che si susseguono (la morte dei figli maschi: Robert prima in un incidente ferroviario, Erwin dopo, suicida), non significa estraneità alla storia.

La storia non resta fuori il cancello di villa Ahrens, ma pesa e raggiunge questa famiglia anche nel suo isolamento; è la storia della prima guerra mondiale, la storia delle dittature naziste e fasciste che espellono la famiglia dalla villa-rifugio, la storia del dopoguerra, fatto di dolori e miseria che non risparmiano anche chi, come loro, ha qualcosa di cui vivere.

Una storia che ripropone il tema dell’identità, quell’ebraismo che in casa Arhens è stato vissuto in modo molto debole ma che pesa divenendo, a tratti, motivo di apprensione durante il periodo fascista ma, anche e alla fine, di orgoglio nel momento in cui si verifica l’incontro con gli alleati liberatori.

Un racconto, dunque singolare, condotto con grande mestiere ma, anche con partecipazione emotiva, quella partecipazione che stende sulle singole pagine un velo sottile ma evidente di nostalgia.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.