Letteratura

I leoni di Sicilia di Stefania Auci

23 Luglio 2019

“In Sicilia non importa far male o far bene; il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’ “.

Questo pensiero rassegnato di don Fabrizio Salina, l’indimenticabile protagonista del Gattopardo, è il sigillo di una cultura che, da millenni, ha contrassegnato la storia dei siciliani. Una Sicilia immobile, una Sicilia irredimibile di cui Palermo, la sua capitale, ha costituito, e continua a costituire, la tragica metafora.

Ecco perché le vicende dei Florio, la dinastia di commercianti e imprenditori arrivati, alla fine del XVIII secolo, dalla calabra Bagnara nella città “felicissima” costituiscono una singolare anomalia, difficile da accettare, che per oltre un secolo segna la storia di Palermo prima e della Sicilia.

Le vicende che li riguardano costituiscono, oggi, un mito nella memoria collettiva dei siciliani, soggetti per saggi scientifici e per abbozzi letterari, tuttavia, non avevano trovato chi le trasformasse in materia viva per un grande romanzo, qualcosa che potesse in qualche maniera ricordare un capolavoro come “I Buddenbrook” di Thomas Mann.

Ci ha provato Stefania Auci, una giovane e colta scrittrice siciliana, ed il risultato è più che buono se non ottimo.

Il suo “I Leoni di Sicilia”, edizione Nord, è infatti un grande affresco a tinte vive della storia siciliana, e di Palermo in particolare, ma è soprattutto il racconto di una famiglia che, nonostante le resistenze e le difficoltà dell’ambiente non demorde, non si piega ma che combatte e vince perché crede, ha fiducia, nella bontà delle proprie idee e perché, piuttosto che accontentarsi dei traguardi raggiunti, guarda avanti, sfida le convenzioni e ponendosi  problemi a mettersi continuamente in gioco, conquistando il futuro.

I Florio sono stati, infatti, un eccezione perché hanno incarnato in Sicilia quello spirito borghese alla cui mancanza si deve addebitare l’arretratezza dell’isola.

Ma questo corposo romanzo non si ferma al racconto della storia di un successo seppur raggiunto a prezzo di enormi sacrifici personali, ma va oltre, indaga le vicende private dei protagonisti, ne mette in evidenza le luci e, soprattutto, le ombre, per raccontarne le passioni e le delusioni, le paure e il coraggio.

Ne vengono fuori storie complicate, profili che vedono preponderante e decisiva la figura dell’uomo e defilata, quasi un contorno necessario al prolungamento della storia familiare, le figure femminili.

In casa Florio è l’uomo che conta, è il maschio che ha posizione dominante, e le sue decisioni non possono essere messe in discussione. E questo dominio, molto spesso, è cinico, spregiudicato, incondizionato al punto da suscitare nel lettore sensi di ribellione.

Per i Florio, così come li tratteggia la scrittrice (e lo fa con grande maestria) è il dio denaro l’unico idolo che merita sacrifici, amori e affetti passano sempre in secondo piano e solo a tratti emerge qualche barlume di umanità.

E d’altra parte, proprio quel danaro, costituirà la chiave per aprire, dopo tante difficoltà, le porte del potere siciliano, sempre serrate a chi non fa parte della casta aristocratica.

Quel denaro, infatti, li riscatterà dalla condizione di parvenu, “facchini”, nella quale, per tanti anni ostinatamente la decadente e indebitata aristocrazia siciliana li aveva confinati.

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