Letteratura
Ciò che inferno non è
Non mi piace leggere libri d’autori baciati dal successo forse perché immagino che dietro il successo ci siano, come spesso accade, delle mistificanti operazioni di marketing.
Per questo motivo ho sempre evitato di accostarmi alla scrittura di Alessandro D’Avenia.
Ma, come spesso capita, una causa esterna rompe un pregiudizio consolidato e, così, provocato dalla mia amica Floriana, ho letto “Ciò che inferno non è”, titolo mutuato da Italo Calvino, un romanzo di Alessandro D’Avenia pubblicato nel 2014 per i tipi di Mondadori.
La prima sensazione è stata un senso di colpa, per aver perduto l’occasione di avvicinarmi ad un autore che merita attenzione, e questo solo per una umorale pregiudiziale.
Riconosco, dopo averne divorato con avidità le pagine intense, infatti che il romanzo di D’Avenia merita d’essere letto se non altro perché è un bel libro, scritto con grande mestiere, capace di condurre per mano il lettore in un mondo, il quartiere Brancaccio a Palermo, di difficile approccio perché carico di contraddizioni. Proprio in quel mondo si può scoprire infatti che, nonostante violenza e degrado siano la drammatica regola quotidiana – lo scrittore non ha riserve di offrirne immagini forti che provocano in chi ha anche elementari sensibilità sentimenti di disgusto e di rivolta – si annidano anche quei semi di speranza – io personalmente ricordo l’associazione Maredolce animata da Domenico Ortolano – che se individuati e coltivati, come dovrebbero essere e spesso non lo sono, potrebbero far maturare svolte epocali.
D’Avenia punta i riflettori proprio su queste scintille di speranza, ne segue passo dopo passo le difficoltà, le disillusioni, le tentazioni alla rinuncia, ma anche la forza dell’impegno, lo sforzo di essere perfino “più realisti del re”.
Proprio il “Ciò che inferno non è “ diviene il vero protagonista di questo romanzo verità che trova, anche, due figure di riferimento, Federico giovane della Palermo bene – è in questa figura mi sembra di coglierne dell’autobiografico – uno studente dell’istituto dove insegna don Pino Puglisi e lo stesso don Pino Puglisi, indomabile parroco di Brancaccio, che brandisce contro mafia e delinquenza, le pagine del Vangelo.
Ci si potrebbe chiedere se, in fine dei conti, si tratti di un romanzo su don Pino Puglisi, martire della violenza mafiosa. La risposta, evidente, è che, in un certo senso, lo è senza, tuttavia, nulla che possa far pensare a una melensa agiografia o al culto idolatra di quel prete di periferia come un semidio.
Il romanzo, con grande sapienza, ci restituisce infatti la figura di un uomo, un Pino Puglisi, con le sue debolezze ed il suo eroismo, armato di un coraggio che, diversamente dal don Abbondio, “se lo vuole dare” inserito in un contesto al quale non aveva voluto rinunciare e che è, come anticipavamo, il vero protagonista dell’opera.
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