Beni culturali
Alturestival 2022
Ci sono dei luoghi magici in Sicilia, forse più che in altre parti del mondo. E, inaspettatamente, non sono le baie o i golfi di notissime località balneari o città d’arte o siti archeologici scontati. Sono le sue montagne. Spesso non così conosciute come meriterebbero, con antichi borghi e monasteri, con panorami mozzafiato sul Tirreno, sugli arcipelaghi, sull’Etna che tutto domina, con boschi antichi e piante relitte dell’ultima glaciazione, per molte specie ultimo baluardo meridionale d’Europa. E c’è un festival di arti varie che magnifica queste montagne che nascondono gioielli inaspettati.
Alturestival 2022, alla sua sesta edizione, si è proposto fin dall’inizio, nel 2016, di coniugare musica, teatro, natura, gastronomia, relax, trekking e quant’altro si possa immaginare, in alcune di queste alture: il Parco delle Madonie e i monti della Conca d’Oro, alle porte di Palermo.
Il festival di fine estate, che parte dalla collaborazione dell’Associazione Culturale Formedonda col Club Alpino Siciliano, il cui presidente, Mario Crispi, storico fondatore e leader degli Agricantus, nonché autore di colonne sonore per il cinema, è il principale organizzatore, ha un ricco cartellone pieno di incontri di alta qualità.
L’Abbazia di San Martino delle Scale fa parte di una spettacolare triade storico-monumentale che comprende anche il Castellaccio, fortezza normanna sede del più antico dei rifugi del Club Alpino Siciliano, e il complesso del Duomo di Monreale. È un antichissimo ed enorme monastero benedettino il cui aspetto attuale però risale all’ultimo quarto del XVIII secolo. Nella neoclassica Sala del Trono abbiamo assistito a un bel concerto dell’Arianna Art Ensemble, uno degli ultimi della rassegna, il 30 ottobre.
Il gruppo palermitano ha proposto una serata tutta mediterranea, ispirata alle terre toccate da Ulisse nella narrazione omerica. Ulisse, nel suo interminabile ritorno da Troia distrutta verso Itaca, toccò quasi tutte le terre del Mediterraneo, la Tracia, la Grecia, il Nordafrica, la Sicilia e le sue isole, la Sardegna, l’Italia, la penisola iberica. Un profugo, alla fine, perché tale era diventato da quando Poseidone si vendicò del trattamento che lui e i suoi compagni ebbero nei confronti di Polifemo.
Ma l’Odissea è solo una sinopia, una traccia per questo viaggio musicale dell’Arianna Art Ensemble, diretto da Paolo Rigano. Non ci sono brani dell’Odissea di riferimento né alcun indizio di ricostruzioni di antiche musiche greche. La chiave di lettura di tutte queste culture sorelle, nelle loro diversità idiomatiche e musicali, messe in comunicazione attraverso l’acqua, è che la musica unisce, la musica è terapeutica per quest’insana malattia tutta moderna di culture in guerra. Nel passato le influenze idiomatiche e musicali erano assai più penetranti, basti pensare alle lingue franche che i naviganti parlavano, e che erano spesso un lacerto di lingue ancora in evoluzione. Esistono varie composizioni musicali che utilizzano questi idiomi non codificati, una tra tutte il canto del XV secolo Ayo visto lo mapamundi, che peraltro esalta la bellezza della Sicilia.
Ma torniamo al percorso marittimo dell’Arianna Art Ensemble. Il programma era questo:
I Sarracini adorano lo sole (anonimo XVI sec, Campania)
O vui ch’un cori avistivu (anonimo XVII sec, Sicilia)
Capona palermitana (anonimo dalla raccolta Meyerbeer)
Durme durme (tradizione sefardita Turchia)
Fandango (S. De Murcia, Spagna)
Jotta (S. De Murcia, Spagna)
Jelem Jelem (Tradizionale Rom)
Jerakina (tradizionale Grecia)
Adrar (tradizionale Tunisia )
Lule lule (tradizionale Albania)
Tarantella (anonimo dalla raccolta Meyerbeer)
Stu pettu è fattu cimbalu d’amuri ( A. Kircher 1641)
L’organico strumentale, ricco e variegato, supportava l’interessante voce di Debora Troìa, carismatica vocalist del gruppo che ha presentato i brani volta per volta. Le sue interpretazioni, convincenti in tutte le diverse lingue e per il pathos che l’artista infondeva in ogni brano, caratterizzandolo con personalità, hanno illuminato la serata, già di per sé ben avviata colla Capona Palermitana (che non è un piatto tipico), una sorta di antica ciaccona strumentale dove il basso ostinato offre modulazioni insolite.
Oltre a Durme, durme, canto sefardita, una delle sue esecuzioni più belle è stata la siciliana O vui ch’un cori avistivu, pezzo poco conosciuto ma che dovrebbe diventare un inno, tant’è bello.
Essendo tutti i brani repertorio d’origine popolare era evidente che sarebbe stato il demone della danza a farla da padrone. Jote, tarantelle, siciliane, fandanghi, che l’ensemble ha eseguito con varietà e vivacità tutte sicule. Coinvolgente la Jotta spagnola, così brillante che veniva voglia di danzarla. I brani strumentali, con virtuosi assoli dei singoli strumentisti, rivelavano tutte le potenzialità espressive del gruppo, che ha fuso con originalità la musica barocca con quella popolare, suggerendo che la barriera tra musica popolare e colta non sia, alla fine, poi così netta. Quasi che il gruppo di Palermo volesse essere la risposta siciliana al noto ensemble internazionale L’Arpeggiata.
Mario Crispi, con tutti i suoi strumenti a fiato etnici, assai particolari e con timbriche così diverse tra loro, duduk armeno, pinquillo, quena, kaval macedone, kavala egiziano, friscalettu siciliano, e altri, ha dato un colore esotico a ogni brano, insuperabile. Paolo Rigano e Silvio Natoli, agli strumenti a pizzico, hanno esibito i frutti delle loro pluridecennali sapienze e ricerche, con idee ritmiche ed espressive di grande effetto. Cinzia Guarino, al clavicembalo, si amalgamava con disinvoltura all’atmosfera generale, con guizzi inattesi e pertinenti, così come anche il bravo violinista Federico Brigantino. L’entusiasmo di Giuseppe Valguarnera, alle percussioni, forniva pennellate supplementari alla già policroma serata: per la prima volta ho assistito a una linea melodica eseguita al tamburello nel pirotecnico assolo che Valguarnera ha elargito con slancio.
La scoperta del repertorio siciliano riesumato in questo programma si deve in parte alle annotazioni che il venticinquenne Jakob Meyerbeer, compositore romantico tedesco, prese in un suo viaggio in Sicilia, affascinato dalla luce del sud e dai ritmi popolari che sentiva per strada. Ne annotò trentasette. Ed è grazie a lui che due brani in programma, la Capona e la Tarantella, sono sopravvissuti fino a noi. Paolo Rigano, che è un apprezzato medico, ha spiegato come Athanasius Kircher avesse inserito la tarantella siciliana Stu pettu è fatto cimbalu d’amuri nel suo trattato Magnes sive de arte magnetica (Roma, 1641) come esempio per la terapia del tarantismo, ovvero per guarire dal morso del ragno, che si credeva sarebbe stato esorcizzato dal ballo scatenato. Così Kircher aveva fornito una datazione a questa danza che, se era stata inserita nel 1641 nel suo trattato, certamente doveva essere ben più antica. Il testo, sentimentale, spiega come l’amante sprezzato paragoni il suo cuore a un clavicembalo, con tutti i suoi pezzi, le corde, i tasti, le rose e i plettri.
La musicoterapia. Chissà quanti mali curerebbe se solo la maggior parte delle persone ascoltasse questa musica. Per far ciò bisogna andare ai concerti e in particolare a quelli dell’Alturestival. Sicuramente non mancheremo, pandemie permettendo, all’edizione 2023.
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