Musica

Show Me your Fear on the Corner: intervista ai Mamuthones

24 Luglio 2019

L’intervista è a cura dal team del programma radiofonico Indica, in onda su Radio Sherwood: Matteo Molon e Salvatore Caruana.

Appena finisce Sherwood Festival è bello sapere che a Padova letteralmente “la musica continua”. Questo è permesso da due fattori: 1) gruppi di ragazz* che si sbattono tantissimo per organizzare spazi e festival dedicati alla musica, socialità e cultura; 2) una città che vive da sempre un movimento sotterraneo musicale invidiabile.

Nel primo caso troviamo, fra gli altri, il team di Arcella Bella, che per il secondo anno di fila dà vita al Parco Milcovich del quartiere Arcella, contribuendo alla rigenerazione urbana dell’area. Nel secondo caso invece c’è una delle band fondamentali della sottocultura patavina: i Mamuthones. Come Indica seguiamo la scena occult-psichedelica da tempo, e finalmente venerdì 13 luglio abbiamo avuto l’occasione di intervistare il mitico gruppo che ha suonato nella cornice del festival arcellano.

La serata è andata tutto fuorché come da programma: sul palco ci sarebbero dovuti essere in apertura i Lizards’ Invasion, ma la pioggia caduta ha rimesso in discussione la line up. Una volta appurato il passaggio del maltempo e dovendo salutare l’esibizione dei Lizards (speriamo di vedervi presto!), dalle 23 alle 24 i Mamuthones formati da Alessio Gastaldello (voice, synth), Francesco Lovison (synth), Matteo Polato (guitars) Andrea Davì (drums, percussions) hanno smosso e infuocato il palco.

Il gruppo è partito con i brani dallo split Collision 04 continuando con il nuovo singolo A Place in the Word, a cui hanno fatto seguito le canzoni di Fear on the Corner (2018). Il live ha meritato l’attesa per la dose di energia ed istinto infusa, i suoni viscerali e “da un altro mondo”, ricordando le danze viste nei video della prima club culture anni ’90, i tempi dell’acid house e della techno, quando beat affilati come coltelli tempestavano il pubblico sotto cassa. I quattro musicisti sono riusciti a creare una dimensione particolare capace di guidare la coscienza individuale e collettiva verso luoghi sconosciuti e mai sondati. Musica come stimolo per muoversi e comprendere nuovi anfratti di sé.

Alla fine di questa baldoria algida i componenti si sono resi disponibili per l’intervista che vi proponiamo di seguito. Li ringraziamo sentitamente perché farla dopo un live cosi fisico, considerando l’ora e la stanchezza, non è stato sicuramente il massimo.

Mamuthones: riferimento al folklore sardo. Come è nata questa connessione e come viene tradotta nella vostra musica?

La connessione è nata quando sono andato in Sardegna per motivi di lavoro e all’aeroporto, senza sapere cosa fossero i Mamuthones e le loro maschere, ho visto questa immagine utilizzata per i turisti, mi ha lasciato stupito, e una volta tornato a casa ho aperto una pagina su MySpace (era il 2007) e ho caricato uno dei primi pezzi. Il suono rituale, esoterico, primitivo era quello che volevo fare e si sposava bene con l’immagine delle maschere. È stata una cosa molto istintiva. (Alessio Gastaldello)

Come è nato il vostro ultimo singolo A place in the World?

Questo brano sarebbe dovuto comparire nell’album Fear on the Corner ed inizialmente è stato realizzato in due versioni, ma tutte e due, seguendo i consigli della nostra etichetta Rocket Recordings, sono state lasciate fuori perché “staccavano” troppo nel suono rispetto alle altre canzoni del disco. Un altro aspetto è che l’album sarebbe stato stampato in vinile e anche per una questione di minutaggio massimo non ci sarebbe stata. A Lucretio avevamo dato l’intero album da remixare ma alla fine lui ha scelto di lavorare sull’unica traccia non inserita e che avevamo scritto per ultima.

Voi giocate molto sui contrasti. Per esempio in Fear on the corner a parole sembra evocativo di qualcosa di oscuro. In verità l’album parte più solare e luccicante per poi incupirsi leggermente verso la fine ma senza mai diventare inquietante o horror. Spiegateci questa particolarità.

Questa è un po’ la caratteristica del suono agrodolce dei Mamuthones, nel senso che giochiamo molto sul contrasto, sull’album passiamo da atmosfere più cupe ad atmosfere più aperte, sia come suono che come mood. È un party dove non bisogna essere per forza allegri, c’è una tensione di fondo nel contrasto fra la parte strumentale e i testi. Magari non è successo consapevolmente, ma ne è risultata una sorta di ideale festa sulle macerie di questo periodo storico molto difficile. Il disco è ballabile, divertente, suona come uno sberleffo celebrante la fine, non è un divertirsi edonistico. Se si guarda anche il video di The Wrong Side, girato dietro il Gran Teatro Geox di Padova, va in quella direzione; si portano in una zona degradata elementi da “zucchero filato” quali i toni del viola e gli unicorni. La paura come cifra e tema condizionante la vita è legittima, ma alcuni hanno scelto di cavalcarla senza remore e nei due anni passati dalla scrittura del disco la situazione è peggiorata. Rappresenta l’intero clima dell’album.

Dallo split Collision 04 all’album Show Me dello scorso anno c’è stato un cambio di sonorità, decisamente più scarne ed essenziali. A cosa è dovuto?

Collision 04 è stato il primo passo verso quello che poi è stato realizzato con Fear on the Corner, un album più nervoso e tirato. È una scelta stilistica andare in quella direzione, ovvero di esasperare un po’ le cose, rendendole più spigolose in accordo anche con le tematiche. Brani potenzialmente ballabili hanno sotto un “nervo” che leva quell’apertura psichedelica classica, non c’è nulla di “cosmico”.

C’è un’attitudine world music anche negli Orange Car Crash (progetto parallelo del batterista della band), e cosi ci viene da chiedere: sono gli Orange Car Crash che prendono spunto dai Mamuthones, o sono i Mamuthones che prendono spunto dagli Orange Car Crash?

Orange Car Crash è un progetto che sta definendo il suo suono e come sapete per le band ci vogliono anni. I Mamuthones questo lo hanno già. Ci si influenza comunque a vicenda artisticamente.

 

Da quali colonne sonore dei B-Movies anni ’70 o da quali pezzi di Library Music avete preso ispirazione per la vostra produzione?

Sono influenze interessanti ma, a parte i Goblin, per il resto non c’è una diretta ispirazione. Forse a livello di atmosfera il sound e l’immaginario dei Mamuthones ricordano la Library Music e l’Hauntology, e per questo ci hanno accostato a loro. Forse l’unico film che potrebbe averci, in parte, ispirato è Cannibal Holocaust (film diretto da Ruggero Deodato nel 1980 e con le musiche di Riz Ortolani).

Simone Choule, titolo di un vostro pezzo, è in realtà un personaggio del film L’inquilino del 3° piano di Roman Polanski. Perché questo riferimento?

È un film davvero terrorizzante ed è uno dei migliori di Roman Polanski. Il pezzo ha un suono duro, muscolare che richiama la pellicola ed è stato registrato col precedente batterista (Maurizio Bordin). Il film porta con sé i temi esoterici ma anche l’ambiente urbano, casalingo, staccando dal contesto primitivo che è presente negli altri nostri pezzi. Il film è il terzo della Trilogia dell’Appartamento. C’è questa contestualizzazione chiusa, stretta che aumenta la durezza percepita.

Quali album o artisti hanno contribuito alla definizione del suono attuale dei Mamuthones?

Sicuramente i Talking Heads di Remain in Light e in generale i lavori di David Byrne con Brian Eno (My Life in the Bush of Ghosts), poi Miles Davis con Bitches Brew e i Can, nonché la new wave e artisti come Liquid Liquid. Si potrebbero trovare nel nostro suono anche riferimenti all’italo disco ma è un lato non ancora così in luce.

Voi rientrate a pieno titolo nell’Italian Occult Psychedelia. A naso direi che l’UK è più pronta dell’Italia a recepire i vostri messaggi e i vostri suoni. Quali sono le differenze tra pubblico italiano e inglese?

I Mamuthones sono per l’Italia un gruppo molto weirdo (strano), per gli inglesi meno, ma per le loro abitudini musicali, al contempo, suoniamo troppo dry (secchi). Siamo weirdo perché non riescono ad inquadrarci come dei punk, o una band disco, non rientriamo in nessuna categoria specifica. In Inghilterra, e l’ho visto anche con altre band, il pubblico medio è maggiore, va dai 30 ai 50 anni (se non di più), mentre in Italia è diverso e non cosi estraneo ai giovanissimi, i quali in UK sono più interessati al mainstream. Ci sono delle belle vibes quando si suona. Quello italiano non è un pubblico che risponde sempre bene, tranne eccezioni come le Marche, ad esempio.

Domanda conclusiva: ad oggi esiste ancora un’Italian Occult Psychedelia?

Il concetto di Italian Occult Psychedelia si è un po’ perso a suo modo. Durante gli anni novanta nel rock indipendente italiano c’era chi si ispirava al filone grunge dei Nirvana, e chi invece ad una psichedelia evocativa e scura. Queste band però erano accomunate più che dalle sonorità da un immaginario comune che trovava (e trova) le sue radici in peculiarità molto italiane: l’estetica religiosa da fine dei tempi, e le tradizioni ancestrali primitive delle varie regioni. Questo creò una nostra estetica originale che era davvero un’evoluzione importante, considerando che prima ci si rifaceva sempre all’estero. Il nome riassuntivo è stato poi coniato dal giornalista Antonio Ciarletta in un articolo della rivista Blow Up nel gennaio del 2012, ed è stato organizzato a Dal Verme di Roma un festival ad hoc, il Thalassa, che ha fatto arrivare il sound fino all’attenzione del celebre magazine inglese The Wire, grazie al report di Joseph Stannard. In tutta questa storia quel che è mancato è stato un investimento esterno alle band, il quale avrebbe potuto rendere più solido l’ambiente, valorizzando un souno originale con seguito internazionale. La conseguenza è stata quella già anticipata, ovvero il perdersi dell’Italian Occult Psychedelia un po’ per strada, perché il compito delle band è fare musica, mentre la promozione delle etichette.

Tirando le somme non si può non rimanere colpiti dalla forza di un movimento così ricco di sfumature sonore al suo interno, ed un immaginario riconoscibile e definito. Un contesto così complesso avrebbe sicuramente giovato di una maggiore attenzione da parte degli “addetti ai lavori”. Da ascoltatore, al di là dei mutamenti e magari della perdita, posso dire che ha dato delle grandi band da ascoltare e scoprire, che vi vogliamo consigliare, oltre ovviamente a Mamuthones e Orange Car Crash:

Lay Lamas / Mai Mai Mai / La Piramide di Sangue / Squadra Omega / Heroin in Taiti. Continuate voi a fare diggin’!

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Foto in apertura di Cristina Bagnara-Andrea Fiumana

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