Musica

Mannarino live al Gran Teatro Geox, 29 marzo 2018

31 Marzo 2018

Mannarino ha sempre quella particolare verve che non ti aspetti oggigiorno: l’essere alto e basso contemporaneamente, fra la strada e il cielo senza distanze. Per quanto esprime nella sua musica è la figura dell’esperienza di vita, un atteggiamento, conquistato, che ti permette di guardare all’essenziale quanto all’infinito.

Nella sua data al Gran Teatro Geox del 29 marzo lo ribadisce in più di un’occasione, questa necessità ancestrale di rivolgere lo sguardo verso l’alto, fedeli più alle “legge della musica” che “dell’uomo”. È un’attitudine che va in netto contrato a una richiesta fra il pubblico di “Mannarino facce balla’ come tu sai fare”, agli schiamazzi e comportamenti simili, i quali si scontrano con l’alquanto palese contesto, diverso dal solito, in cui è calato il live.

Abbiamo poltrone, persone sedute e un cantautore che si presenta nel buio illuminato solamente da un fascio di luce proveniente dalla destra (rispetto al pubblico). Inizia con qualche pezzo dell’ultimo disco, come Apriti Cielo, e continua, arrivando a stornelli dove gioca con il concetto di mura e i nomi di Rebibbia e Regina Coeli.

Nel mezzo di questi pezzi, criticando la richiesta di “facce balla’” e chiedendo rispetto per la veste inedita data al tour, spinge a ragionare come non sempre sia necessaria e utile un’alienazione dalla realtà al tempo di musica, bensì un’altra forma di distacco più consapevole: l’astrazione rispetto al senso comune delle cose, verso la ricerca di un significato maggiore. Penso sia questo il motivo alla base della dimensione maggiormente introspettiva de L’Impero Crollerà (nome dato al tour).

Credo che gli ascoltatori siano attratti dalla musica e dell’immagine dell’artista per due motivi: l’aspetto di “uomo del popolo” che con la sua musica riesce a rendere più belli contesti dove normalmente la precarietà (morale e pratica) vige padrona; la capacità di raccontare la dualità di chi soffre ma riesce sempre ad andare avanti. L’astrazione funziona proprio così: fare un passo indietro rispetto a quello che stringe il cuore e lo stomaco, per guardare oggettivamente il flusso dell’esistenza e capire che è un momento nel tutto. Ciò sgasa e ridimensiona la negatività, il dolore provati e permette di Decidere.

Il concerto prosegue, nell’ultima parte, con brani decisamente più movimentati e una versione dal basso houseggiante (si, houseggiante, chiedete alla garage) de l’Arca di Noè e una Serenata Lacrimosa quanto mai intensa. Questo, per dire: bastava aspettare, assaporare il concerto, e il momento dedicato al piede sarebbe arrivato. Nonostante ciò, di due ore dense di show quest’ultimo atto ricopre mezz’ora, dunque la prospettiva introspettiva rimane preponderante.

È difficile spiegare il cocktail di emozioni ancestrali e pulsioni terrene che Alessandro riesce a trasmettere, se non che la sua è world music senza quella dimensione spesso ristretta di rione, borgata che caratterizza il genere. È una visione globale di mondo come fosse un unico grande quartiere ai piedi della città, dove ultimi e primi si mescolano assieme; dove i primi cercano esoticità mentre gli ultimi un’empatia che gli permetta di tirare avanti.

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