Padova

L’omicidio di Padova e le ombre dell’adolescenza

11 Aprile 2017

Ancora un figlio che uccide il padre. Ancora un movente e una dinamica poco chiari. Il fatto è avvenuto a Padova, dove Enrico Boggian, 52 anni, imprenditore, è stato ucciso dal figlio sedicenne con il fucile del nonno. Il ragazzo dichiara che voleva solo fare uno scherzo al genitore e che non sapeva che l’arma fosse carica. Il gip (giudice per le indagini preliminari), invece, è arrivato a ipotizzare niente meno che un omicidio premeditato.Invita alla cautela Marco Montanari, esperto in psicologia dello sviluppo e nuove tecnologie presso l’Università la Sapienza, attualmente iscritto al Cipa di Roma, la prestigiosa e antica scuola italiana di psicoterapia ad indirizzo junghiano: si tratta di una storia tutta da scrivere, una verità complessa da svelare, anche perché molti testimoni raccontano che Boggian e suo figlio avevano un legame forte e affettuoso.

Professor Montanari, come si fa a 16 anni ad uccidere il proprio padre e, a quanto ipotizza il gip, persino con freddezza?

«A quell’età capita di dare un valore eccessivo all’emozione del momento, alla rabbia o altro. È tipico in un’età a cavallo tra infanzia e età adulta di avere atteggiamenti bambineschi in un corpo adulto. Normalmente i risultati non sono tragici, anche perché in noi c’è un blocco naturale di protezione della specie che ci porta a non esagerare. Questo blocco è però molto attutito dall’uso di mezzi e strumenti che ci “deresponsabilizzano” in quanto ci allontanano dalle vittime: è più facile sparare e uccidere che picchiare e uccidere. Sono strumenti che nella loro natura rendono realizzabili cose altrimenti impossibili.

Il punto fondamentale è che un sedicenne ha ucciso il padre; un’ipotesi è che effettivamente il gioco gli abbia preso la mano: il ragazzo ha fantasticato una sorta di vendetta senza veramente avere l’intenzione di uccidere il padre, poi però lo ha ucciso effettivamente.

Da un punto di vista psicologico si potrebbe pensare che (la parte oscura) l’ombra  del ragazzo ne abbia dominato gli atti, portandolo a compiere l’irreparabile malgrado il suo vissuto positivo con il padre. La rabbia che ha avuto quando si è reso conto di cosa aveva fatto si può intravedere nel fatto di aver danneggiato il calcio del fucile sbattendolo per terra più volte, come a voler punire l’arma. Si tratta di una spiegazione che potrebbe essere compatibile sia con un atto attentamente preparato come una sorta di cerimonia architettata nel tempo sia con qualcosa di più improvvisato e estemporaneo. Questa però è solo un’ipotesi visto il poco che sappiamo dei fatti».

Se si possono avere dei problemi anche grossi con i propri genitori, come si fa a pensare che con la loro morte si risolvano?

«Nel caso specifico la morte del padre non sembra legata a un’ipotesi di risolvere qualcosa di reale: sembra piuttosto una ribellione contro l’autorità incarnata dal padre, una dimostrazione di forza in questo senso finita male. Ci sono stati altri casi di cronaca in cui i figli puntavano a qualcosa di pratico come l’eredità familiare, per esempio: non mi sembra il nostro caso. L’unica cosa di cui si accenna è la possibilità di usare la moto. Proprio questo mi fa pensare a un qualcosa di poco pensato, di poco ragionato nel senso adulto del termine».

Il ragazzo avrebbe mentito due volte: prima negando l’evidenza e poi parlando di uno scherzo finito male. Una simile menzogna non aggiunge ferita a ferita?

«Il ragazzo difende se stesso: chiunque soffrirebbe moltissimo ad ammettere di aver ucciso il proprio padre. Soprattutto quando non si hanno delle “giustificazioni sociali” che attenuano la violenza percepita del gesto (penso per esempio al fatto che il padre fosse particolarmente violento con la madre e allora lui avrebbe agito per difendere la mamma: non è questo il caso). Sul discorso di aggiungere ferita su ferita, dal punto di vista del ragazzo è un processo di svelamento, di arrivare ad ammettere i fatti. Per i suoi cari può essere inteso come menzogne che si sommano, di ferite su ferite. Tuttavia la ferita più profonda rimane immutata: lui ha ucciso il padre, ha rotto un tabù».

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