Musica
L’estate A Padova #2: Japandroids live al Parco della Musica
Attendevo il concerto padovano dei Japandroids con ansia. Li avevo persi nel 2012 quando vennero, accompagnati dai Be Forest, al Bastione Alicorno. Dunque, eccomi, finalmente martedì 6 giugno 2017 al Parco della Musica, invece, per celebrare le loro canzoni.
Premessa: la mia attitudine da fan rimane comunque critica, perché il ragionamento è: “io ti dò tutta la mia passione, in cambio mi aspetto lo stesso”.
C’è da dire che la serata aiuta. Il Parco è immerso in un cielo fresco, roseo, andante a scontrarsi con le nubi di passaggio e l’oscurità incombente, il che mi pare un ottimo riassunto “ambientale” del mood della band di Vancouver, così divisa fra il chiarore dell’energia espressa e il nero del punk fra le corde.
Ad aprirli ci sono gli italiani Captain Mantell, band già vista in precedenza e di ottima fattura ma forse troppo “morbida” per il duo canadese. Un’apertura non corrisposta. Le 22.15 si fanno presto e nel finire della mia bionda i Japandroids salgono sul palco.
Ora, vi potrei elencare l’intero spettacolo vissuto attimo per attimo, ma preferisco concentrarmi sui pensieri migliori:
- Le canzoni di Celebration Rock e Near to The Wild Heart Of Life sentite dentro il cuore fino a scoppiare, spingendo sulla transenna. Menzione speciale per The House That Heaven Built
- Il microfono e il volume della voce troppo basso, sistemato in volata, e il pubblico che nonostante continua a cantare imperterrito
- Il finale di True Love And A Free Life Of Free Will rifatto per un fan, vista l’imprecisione del primo take
- Gli intermezzi giocosi di batteria di David Prowse nei cambi di chitarra di Brian King
- Le bacchette rotte dalla violenza di David Prowse
- La chitarra di Brian King che suona come fossero due o più
- Le canzoni dal suono più scarno live, ma ancora più viscerali e punk
- Il sudore del duo, ma in particolare quello di David che a tratti sembra immerso completamente in un trip mistico-ossessivo
- La consapevolezza finale che i Japandroids non sfigurerebbero con le band del passato, perché sono fatti della stessa voglia, urgenza, amore per la vita sopra ogni cosa che ha generato il rock ‘n roll. Quell’amore umido, sessuale e trascendentale che sovrasta ogni errore.
- Gli errori: il volume della voce troppo basso all’inizio, la resa dei pazzi meno “cicciona” rispetto agli album in studio. La poca gente rispetto alle aspettative, ma non imputabile a loro, logicamente.
- La cifra stilistica complessiva, concentrata in un’attitudine che dà ancora senso all’amare come adolescenti in piena esplosione ormonale la musica e le chitarre.
- La voglia di scopare che ne consegue
- L’altrettanta, magra consapevolezza che in giro gli animi sono troppo temperati e le band l’ammosciano, sembrando vecchie anche se i componenti sono giovani.
- La chiacchierata post concerto, fuori dal backstage, dove loro ti riconoscono ancor prima di finire il saluto come “quelli che facevano più casino!”
E questo è quanto.
Provate ad ascoltare i dischi mentre viaggiate, a casa in preda alla rabbia, mentre siete sottocoperta a farlo, la notte nei locali, alle feste! E se li beccate live nella vostra zona, spingete sulle transenne!
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Questo articolo fa parte della serie “L’estate a Padova”, focus sulla vita notturna della Città del Santo durante la Bella Stagione
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