Acqua
Acqua avvelenata in Veneto
In Veneto c’è un’ampia zona rossa da inquinamento ambientale. Incastonata tra le province di Vicenza, Padova e Verona, si trova una falda acquifera completamente contaminata.
Ci troviamo ai piedi dei colli Berici, tra vigne ed olivi che sempre ci accompagnano nello splendore dell’Italia più rurale. Lonigo è un comune del vicentino che conta poco più di 16mila abitanti e che sembra, in tutto e per tutto, una cittadina operosa e prosperosa, esattamente come molti altri Comuni per cui è famoso il Veneto, una delle regioni più produttive d’Italia. In realtà si tratta dell’epicentro di una tra le contaminazioni di derivazione industriale più gravi di tutta Europa.
Disastro ambientale
Nel sottosuolo attorno a Lonigo, su un’area di circa 700 chilometri quadrati (in espansione, trattandosi di acqua), si estende una falda acquifera da cui pescano oltre 20 acquedotti ed un numero imprecisato di pozzi privati. La falda fornisce acqua potabile a una popolazione che conta circa 350mila persone. L’acqua di tale falda è stata analizzata in laboratorio e i dati sono allarmanti: la presenza di PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) in essa contenuti è elevatissima.
I PFAS sono una famiglia di composti chimici. Si tratta di acidi perfluoroacrilici molto utilizzati nell’industria in quanto sono in grado di conferire vigore e resistenza ai prodotti nei quali vengono impiegati, soprattutto tessili. Tali molecole si possono trovare in pelli e tappeti, cartoni di uso alimentare, nell’abbigliamento tecnico, nelle pentole antiderenti, nella sciolina utilizzata dagli sciatori e nelle schiume antincendio racchiuse negli estintori a schiuma.
Nell’uomo, però, possono causare tumori a reni e testicoli, in quanto agiscono brutalmente sul sistema endocrino; inoltre sono in grado di generare coliti ulcerose, ipertensione gravidica e malattie tiroidee. Quando alcuni anni fa le autorità si sono accorte dell’inquinamento di quella falda, hanno invitato le famiglie a sottoporre tutti i ragazzi almeno quattordicenni ad uno screening per controllarne la presenza di PFAS nel sangue. Alcuni giovani presentavano quantità di sostanze perfluoroalchiliche nel sangue superiori di ben 11 volte al tasso massimo consentito. Nessuno aveva mai informato quelle persone di non utilizzare (e soprattutto non bere) quell’acqua. Eppure l’inchiesta che si è aperta a partire dal 2017 parla di un problema sorto già nel corso degli anni ’60.
Le cause
La prima notizia che certifica il tasso di inquinamento delle acque del Veneto risale al 2013. In quell’anno venne pubblicato uno studio commissionato da Ministero per l’Ambiente e IRSA (Istituto di Ricerca sulle Acque), il quale rientrava in un filone più ampio, poiché l’Unione Europea voleva monitorare la presenza di PFAS all’interno dei bacini fluviali. In tale occasione, i bacini di Adige e Brenta erano emersi come i due casi più preoccupanti. L’agenzia regionale di protezione ambientale per la regione Veneto (ARPAV) rintracciò la responsabilità nell’operato di uno stabilimento chimico in Val D’Agno.
Qui, ai piedi dei monti Lessini, si trova il piccolo centro di Trissino, il quale conta poco meno di 9000 abitanti. Il paese possiede una zona industriale, a fondovalle, dalla quale neanche si scorge lo stabilimento della Miteni, seminascosto com’è da alti alberi. Eppure se si sa dove guardare la si trova proprio lì, dov’è stata fin dal 1965. Nel corso dei vari passaggi di proprietà che ne caratterizzano la storia, l’ultimo dei quali è quello che risale al 2009, quando Mitsubishi, gigantesca holding nipponica, cede la società al fondo di investimento, con sede in Lussemburgo, International Chemical Investors Group (ICIG SE). Precedentemente (nel 1996) il conglomerato del Sol Levante aveva acquistato le azioni che, dalla fine degli anni ’80, appartenevano a Eni Chemicals. Nel 1988, infatti, l’azienda giapponese e quella italiana si erano divise le quote societarie, proprio per tal motivo lo stabilimento aveva acquisito il nome Miteni, dalla crasi dei nomi dei due brand.
Ovviamente, negli anni ’60 non si disponeva delle conoscenze scientifiche che abbiamo oggi relativamente alle sostanze perfluoroalchiliche. Non che questo possa essere una scusante di alcun tipo, specialmente alla luce di cosa è accaduto negli USA, dove la DuPont – azienda chimica che sfruttava due acidi perfluoroacrilici: PFOS, acido perfluoroottansolforico, e PFOA, acido perfluoroottanoico – era in possesso di documenti affermanti la pericolosità di queste sostanze fin dagli anni ’70 (è stato dimostrato in tribunale) ma non si è comunque mai preoccupata di ridurre i propri sversamenti nelle falde acquifere.
Alcuni sentori di rischio, però, erano già stati rilevati. Nel 1977 la falda idrica veneta oggi completamente avvelenata fu contaminata da uno sversamento – sembra accidentale – di benzotrifluoruri (BTF), che sono un sottoprodotto della lavorazione dei PFAS. L’azienda, ai tempi nota come RiMar (Ricerche Marzotto), fu multata ma venne prontamente assolta dall’accusa di disastro ambientale e sanitario. Nel corso degli anni ’70, infatti, i BTF non erano ancora soggetti ad alcuna normativa. Come però sottolinea, su un approfondimento de L’Internazionale sul tema la giornalista Marina Forti, numerosi anziani del posto ricordano ancora quando i fiumi nel vicentino scorrevano colorati di blu e rosso, a causa delle tinture sversate nei loro letti. Le schiume della RiMar prima e di Miteni poi venivano scaricate, senza alcun ritegno, in un piccolo torrente che scorre alle spalle dello stabilimento. Da lì affluivano prima nell’Agno, poi nel Fratta – Gorzone e infine nel Brenta. Durante il processo, filtravano indisturbati nella falda idrica.
Le conseguenze
Il 9 novembre 2018 la Miteni è stata dichiarata fallita, dopo che il tribunale di Vicenza ha accettato l’istanza depositata in ottobre dal Consiglio d’Amministrazione dell’azienda. Le sue scorie, però, galleggiano ancora nelle acque di Trissino e della macroprovincia interessata dalla stessa falda acquifera.
“Per il numero di abitanti coinvolti e la dimensione della falda freatica, la seconda in Europa, si tratta di una vicenda eccezionale. L’azienda era al corrente della contaminazione da tempo. Aveva l’obbligo di segnalarla alle autorità ma non lo ha fatto, solo nel 2017 abbiamo realizzato la gravità della situazione, all’esito delle prime analisi del sangue.” Ha affermato Matteo Cerruti, l’avvocato del comitato locale Mamme no PFAS – composto dalle famiglie i cui giovani hanno concentrazioni di perfluoroacrilici altissime nel sangue – il quale si è costituito parte civile al processo contro Miteni che si sta tenendo a Vicenza.
Occorrerà attendere forse anche decenni prima che l’acqua di quella falda sia di nuovo utilizzabile. Tutto ciò mentre la riserva d’acqua sotterranea si sposta verso Venezia a ritmi di un chilometro e mezzo ogni anno. Quella dei PFAS in Veneto è una catastrofe ambientale e sanitaria le cui proporzioni sono spaventosamente vaste. Studi recenti dimostrano come, nella zona interessata, i neonati nascano sistematicamente con peso troppo basso rispetto alla media nazionale. Casi di ipertensione, diabete (anche in gravidanza), malattie congenite, ipercolesterolemia e tumori al testicolo sono in aumento nel comune di Lonigo.
Ora è stata istituita una zona rossa e i Comuni stanno progettando acquedotti che prelevino acqua dalle montagne piuttosto che dalla falda sottostante. La notizia è diventata di dominio pubblico. negli ultimi mesi e molti si sono indignati. Eppure pare che, non troppo lontano dal cratere contaminato, nell’alessandrino, c’è un’azienda che ha intenzione di potenziare la propria produzione di composti perfluoroalchilici, ponendosi come nuovo punto di riferimento per gli acidi C6O4 che venivano creati all’interno della Miteni. Si tratta della Solvay e la denuncia è partita da un sito internet il quale si definisce organo di informazione del Movimento no PFAS veneto. Vera o meno che sia questa notizia, l’intera vicenda ci porta nuovamente all’attenzione quanta distanza ci sia tra tutela ambientale e sviluppo economico.
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