Città
Noi non romani, e la nostra voglia di sputare sulla Grande Bellezza
Per noi non romani, sempre sospesi tra la tentazione di cedere alla lusinga della capitale e il dovere “sociale” di disprezzarla pubblicamente, sono giorni di astiosa rivincita. “Lo vedi, il marciume vero stava laggiù, è quella città putrida e melmosa che corrompe il paese”. Sembra di sentirle, capita di sentirle, capita anche di sorprendere se stessi a pensarle, le rivendicazioni di alterità che dedichiamo d’istinto alla capitale e alle ultime vicende che – effettivamente – perdono i contorni del fatto per assumere quelli dell’eterno ritorno del mito, nero, della “capitale corrotta di una nazione infetta”. Mafia capitale,mica per niente.
Così, in questi giorni, due esercizi intellettuali sono particolarmente utili. Il primo, tutto giornalistico, sta nella ricostruzione dei fatti, nella comprensione delle accuse e dei contorni giuridici dell’inchiesta che sta scuotendo il potere, i poteri della capitale, di quella città in cui sconosciuti politici locali hanno più potere e generano più “indotto” di sei o sette parlamentari di quest’epoca politica così poco onorevole, per gli onorevoli nominati e pronti a votare tutto, pur di poter sperare di tornare a Roma al prossimo giro – ben inteso: più tardi che si può.
Il primo esercizio lo facciamo, lo faremo, continueremo a farlo, e vale appena la pena di ricordare gli interventi di Peppino Caldarola, Sergio Scandura, Stefano Iannaccone: i fatti sono i fatti, e contano più delle retoriche che li fraintendono e, fraintesi, li tramandano. Poi c’è un secondo esercizio, pure importante, che invita, al di là del dovere civico e politico di comprensione e critica, a quello, non meno prezioso, dell’autocritica. A uno sguardo non compiaciuto su di noi, non romani ma assidui frequentatori della capitale, coi che abbiamo visto e rivisto la Grande Bellezza e nello sguardo cinico e superiore di Jep Gambardella ci siamo crogiolati tante volte, prima che le inchieste di questi giorni confermassero,una volta di più, che “noi siamo meglio”.
Già, perché “Roma ti fa perdere un sacco di tempo”. Così parlava proprio Jep Gambardella a chi, svolazzando tra un salotto e una terrazza, gli rinfacciava con educazione che lui aveva scritto un solo libro e delicatemente gli chiedeva conto del perché. E Jep, che arrivato ventenne in città si era ripromesso di diventare re delle notti, di avere il potere di far fallire le feste degli altri anche solo declinando un invito e in quell’obiettivo era riuscito a meraviglia, dà la colpa a Roma. È lei, la sua grande bellezza che è già diventata modo di dire, la colpevole della dissipazione di una vita di talento e fascino buttata irresistibilmente alle ortiche, immolata da Jep di notte in notte al culto della dea Roma.
Da modesto lettore delle cose civili di questo paese, e da frequentatore non autoctono, assiduo seppur irregolare di Roma, invece, mi sono sentito chiamato in causa dal punto di vista narrativo – potremmo dire anche etico – di Sorrentino e del suo Jep. È il punto di vista che ho sentito fatto proprio (prima, durante e dopo il film) da molti amici non romani ma romanizzati, tipicamente intellettuali di varia natura, scrittori, manager, ovviamente parecchi giornalisti. È quello sguardo sufficiente di chi ha scelto Roma tanti anni fa e non tornerebbe volentieri nella propria città di origine – Milano, Napoli, Torino, o la sconfinata provincia italiana padana o meridionale: qui cambia poco -, eppure mentre la vive e se la gode tutta, mentre non si perde una serata in salotto o una festa in terrazza, continua a sibilare una cattiveria su Roma almeno una volta al giorno. Di più, continua a rivendicare una propria alterità da quella città e da quella èlite romana, per entrare a far parte della quale darebbe – o ha già dato, più spesso – l’anima.
Naturalmente, la storia ha un rovescio: ed è la chiusura élitista di certi salotti, sono i circoletti capitolini autoreferenziali, sono le tirate fuori dal mondo della “donna con le palle” rasa al suolo da Jep in un monologo memorabile, quella stessa Roma che ha il boss come vicino di pianerottolo e non se ne accorge e quella che – fuori dal film, nella “vita vera” dei giornali – ha reagito stizzita e offesa perché, evidentemente, da qualche parte Sorrentino ha trovato il varco giusto per stuzzicare diverse piaghe.
Ma questa critica a Roma la lascio volentieri a chi può chiamarla autocritica, nella convinzione che ognuno da questo film e da ogni opera intellettuale debba ricavare qualcosa che, anche dolorosamente, fa crescere se stesso. Dal nostro lato del campo di non-romani che frequentano assiduamente la capitale, resta l’obbligo di vigilare sulla tentazione di avere tutto, di non perdere una festa e di non lasciarci scappare una battuta. E di ricordarci che gli ultimi che sono arrivati a Roma chiamandola “ladrona” han fatto una fine poco onorevole e, dal punto di vista della probità, si son trovato a non poter insegnare più niente a nessuno. Trovandosi accerchiati dalle accuse di “fatterelli” di corruzione e dai fattacci di connivenza con pezzi di criminalità organizzata. Trovandosi, ancora prima e senza che ci fosse nulla di penalmente rilevante, a promettere padanie immaginarie nei dialetti celtici e, intanto, a godersi Roma fino all’ultimo istante, il suo dolcissimo senso di potere che sembra senza prezzi, il suo seducente scenario che sembra a gratis, la sua generosità ospitale che sembra senza fine.
Sembra, già, poi finisce di colpo e nel nord o nel sud, dove è casa della maggior parte, restano solo nostalgia e rimpianti, e il cervello e l’anima prigionieri di Roma.
È la grande bellezza, bellezza.
(Rielaborazione di un mio articolo, apparso su Paese Sera -www.paesesera.it – il 13 gennaio del2014, scritto in occasione dell’assegnazione del Golden Globe a La Grande Bellezza)
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