New York
Noi, che non siamo mai stati a New York
Lo so. Agli italiani non piace la lingua tedesca, la trovano ostica e la paragonano alla macchietta creata da Charlie Chaplin per sfottere Adolf Hitler. Un vero peccato, perché è una lingua armoniosa, con molte più parole di quella italiana, quindi estremamente precisa, ed ha una potenza passionale che, chi non la parla, non può percepire. Non vi compatisco, perché la pensavo come voi, prima di arrivare a capire la rabbia del dolore di Herbert Grönemeyer, il sarcasmo di Frank Spielker (Die Sterne), la profondità dei Goldenen Zitronen e, inaspettatamente, la poesia di Udo Jürgens.
Dico: inaspettatamente, perché Jürgens è un cantautore arrivato al successo negli anni ’60, con l’onda mondiale del pop romantico retro che, in Italia, significa Ricchi e Poveri, oppure Albano e Romina. Pfui. È un ragazzone austriaco dall’accento sbruffone, uno sciupafemmine insopportabile, alla Alain Delon, uno che ha sempre fatto sfoggio della sua ricchezza e si è spregiudicatamente approfittato della fama. Una fama nata con la sua vittoria (l’unica per l’Austria) nel Festival dell’Eurovisione del 1966. Doppio pfui.
Viene da una famiglia di banchieri, un suo zio è stato per anni Sindaco di Francoforte e l’altro, insieme alla moglie, è stato il primo grande industriale dell’acqua minerale in Germania. È cresciuto in un castello della Carnia, e da ragazzino, come tutti, ha fatto parte della Hitlerjugend, dalla quale è stato espulso perché, con il piano, a soli 9 anni, aveva composto una canzone per sfottere il Führer. I suoi insegnanti lo hanno scacciato, e prima di farlo lo hanno picchiato talmente forte da renderlo quasi sordo da un orecchio.
Dopo la guerra, a 12 anni, la famiglia lo ha mandato in scuole prestigiose, dalle quali si faceva mandar via perché era discolo e viziato e, già a 16 anni, abituato a pericolose scappatelle muliebri, poi riparate dalla famiglia pagando la malcapitata. Triplo pfui. Dal 1950 in poi ha iniziato a suonare quattro volte alla settimana nel noto Tanzcafé di Klagenfurt, dove guadagnava l’equivalente di tre euro e mezzo a serata. A quel punto è diventato serio e disciplinato, ed a 18 anni, nel 1952, ha vinto un concorso nazionale come miglior pianista emergente d’Austria. Poco dopo è arrivata la fama, ed una top model pazzesca, Erika Meier, detta Panja, considerata la donna più bella del decennio, con cui è stato sposato per anni (mettendole puntualmente le corna) ed ha avuto due figli.
Di tutto questo mi frega nulla. Di un artista bisogna valutare l’opera, non la vita. Era giovane, aveva un pacco di soldi, era bello e famoso: se l’è goduta, e si è spesso comportato in modo – diciamo – antipatico. Ma soprattutto ha iniziato a scrivere canzoni che, con la sua immagine pubblica, non avevano nulla a che fare. Ha iniziato con “Ehrenwertes Haus” (Un Palazzo Onorabile), un blues a favore degli hippies che occupavano le case, contro i piccolo borghesi pignoli, invidiosi e infelici, che gli ha creato alcuni problemi legali, ma gli ha fatto aumentare la popolarità. Lo stesso con “Aber bitte mit Sahne” (Ma per favore con la Panna), che sfotte gli amori del perbenismo, scoppiati in una pasticceria con sala per il caffé, conclusi con la morte diabetica.
Poi è arrivato “Griechischer Wein” (Vino Greco), che è una ballata malinconica e struggente che racconta il dolore degli emigrati in Germania, la loro nostalgia di casa, il senso di insicurezza dovuto ai maltrattamenti del popolo tedesco. Ed infine la mia canzone preferita, considerata dai tedeschi la migliore del 20° secolo, “Ich war noch niemals in New York” (Io non sono mai stato a New York), che racconta di un giovane padre di famiglia, incastrato in una vita noiosa e senza prospettive che, dopo cena, esce di casa per comprare le sigarette. E sogna. Sogna di avere il coraggio di andare via, di ricominciare da capo, e si accorge di avere in tasca il passaporto ed il libretto degli assegni.
Grida: Non sono mai stato a New York, non sono mai stato alle Hawaii, non ho mai camminato per san Francisco con i jeans strappati – non sono mai stato libero. Ti aspetti chi sa cosa, ed invece torna a casa, a capo chino, con la moglie che gli fa fretta, perché in TV c’è una trasmissione di Thomas Gottschalk, il Pippo Baudo tedesco. La sconfitta completa.
Amato anche in America, tutto il mondo di lingua tedesca lo adorava, perdonandogli qualunque cosa – persino il fatto di aver accettato il passaporto svizzero per pagare meno tasse. Perché era un artista di grandissimo talento, di lingua tagliente, eppure sempre molto educato. Era la coscienza sporca del tedesco del boom economico, la doppia faccia di chi sperava in un mondo diverso ma ha difeso strenuamente quello in cui aveva raggiunto il benessere. L’ho visto dal vivo sei mesi prima che morisse, nell’estate del 2014, nella stupenda piazza del Duomo di Erfurt, la più grande d’Europa dopo la piazza Rossa di Mosca, con due cattedrali (una cattolica ed una protestante) che si salutano dalla cima di una scalinata spettacolare. Era una sera d’estate, e Jürgens parlava del futuro, dei figli dei suoi figli, della necessità di salvare il clima (quando non era ancora di moda) e la pace (quando ancora non c’era la guerra): Consolava i perdenti, derideva i supposti vincenti: “un banchiere tedesco è Zio Paperone che non sa cosa farsene dei soldi, e gode solo nel far soffrire il prossimo, perché non prova più né entusiasmo, né eccitazione sessuale, né amore per la vita. Perché non ne sa nulla”. Oppure: “C’è più cuore ed integrità in un minatore polacco della Ruhr che in tutto il parlamento federale tedesco”. Parole, certo, solo parole. È morto lasciando un patrimonio multimilionario. Ma ci ha lasciato anche le sue canzoni, amate, come vedete nel video, anche dai complessi rock dei nostri figli.
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