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John Kennedy Jr e l’età dell’inadeguatezza
Nel 1999 Bill Clinton è sotto impeachment e si salverà per il rotto della cuffia. Al Gore è il successore designato, ma nonostante Clinton rimanga alto nei gradimenti degli Americani (lo è tutt’oggi), il tocco magico pare essere perduto, consumatosi dopo otto anni di Presidenza in cui gli Stati Uniti hanno cavalcato una crescita economica vigorosa e decisamente più distribuita anche di quella che stanno attraversando oggi con Barack Obama. La tragedia è dietro l’angolo, appena voltato il secolo. Sappiamo com’è andata a finire: Gore che perde, Bush che vince e poi tutto il resto, con strascichi che nemmeno i due mandati di Obama sono riusciti ancora a cancellare.
Doveva essere un nuovo secolo all’insegna dei democratici e della democratizzazione culturale ed economica grazie a internet: il secolo della liberazione creativa dei lavoratori, anche di quelli più umili. Un sogno non meno incantato di quello che fu negli anni Sessanta quello del regno di Camelot, quello della seppur breve presidenza Kennedy che ancora oggi è capace di generare fascino e una buona dose d’illusione retroattiva.
Eppure un’avvisaglia ci fu, drammatica e dolorosa: la morte improvvisa e violenta di John Kennedy Jr. precipitato nelle acque di Martha’s Vineyard il 16 luglio del 1999 con il suo Piper Saratoga. Con lui che pilotava il velivolo, morirono la moglie e la cognata.
La morte del figlio del presidente Kennedy colpì molto gli americani, li addolorò riportandoli dentro una cupezza che come avremmo capito in seguito (anche leggendo Le correzioni di Jonathan Franzen) era molto più generazionale che dettata da una nostalgia occasionale. John era il figlio bello e colto, simpatico e gioviale, ma anche stretto nella morsa di una predestinazione: diventare presidente e diventarlo ripartendo direttamente da suo padre.
La famiglia Kennedy, come ebbe a dire lui stesso, era la versione senza piume della famiglia Disney: molti nipoti, molti zii e nessun padre. Lo stesso presidente Kennedy non ha mai avuto le stigmate del capofamiglia. L’unico vero padre fu Joe, colui che indicò il primogenito, Joseph Patrick Jr. quale predestinato alla presidenza e che optò (o si potrebbe dire, ripiegò) su John a causa della morte di Joe Jr. durante una missione aerea (un altro junior, un altro volo).
John Jr. sopravvisse negli anni alle pressioni dei media e della politica (grazie anche alla protezione, a volte ossessiva della madre), si muoveva con accortezza e sospetto all’interno di una strategia di avvicinamento alla politica che alla vigilia del 1999 iniziava a diventare praticamente obbligata. Ogni elezione era infatti buona per porgli la fatidica e pressante domanda su una sua possibile candidatura.
Giocando un poco con il tempo, pare evidente che le elezioni che diedero il secondo mandato a Bush Jr. (un ennesimo Junior) avrebbero potuto essere terra di conquista per Kennedy accelerando l’andamento della storia verso regimi più progressisti e innovativi, ma forse bruciando per sempre l’occasione Obama. Chissà, tutto da immaginare e nulla di possibile. Di certo oggi, alla vigilia di una nuova elezione presidenziale e a sedici anni dalla sua morte, la figura di John Kennedy Jr. risulta sempre più schiacciata tra desiderio e obbligo, tra ambizione e possibilità. Un contrasto sentimentale che lo animava e lo inquietava fortemente e che appariva condensarsi in un unicum di cui solo lui doveva farsi carico. La sua condizione di privilegiato (di eletto, meglio ancora) lo obbligava a essere una guida, ma contemporaneamente lo isolava da ogni possibile rappresentanza popolare. Un carisma quindi più dell’obbligo e della responsabilità, anche sofferta, che del successo goduto e costruito, come quello ad esempio del sempiterno Bill Clinton.
Eppure se Pastorale americana di Philip Roth (e in generale tutta la trilogia e Patrimonio) ci ha raccontato qualcosa dell’America di JFK, non c’è dubbio che Jonathan Franzen – così fastidiosamente snob ed elitario quanto narratore da feuilleton pop – ci ha raccontato una condizione contemporanea che vede schiacciati sul medesimo piano, quello psicologico, leader e popolo. Lo ha fatto con un racconto famigliare, intimo e generazionale; non certo con un’opera dall’audacia politica di James Ellroy o di Don DeLillo, ma lo ha fatto individuando l’unico spazio in cui mostrare per davvero quanto il privato sia politico. Vecchia formula certamente, ma l’unica forse tra le vecchie ancora funzionante.
John Jr. Kennedy nasce nel 1960, ha pochi mesi meno di Franzen ed è un’icona già a tre anni con il famoso saluto militare al feretro del padre. A rivedere oggi le immagini di questo giovane uomo non si può non percepire l’incredibile fascino e magnetismo capace di sfondare ampiamente i confini del glamour. John muore nel 1999, nel 2004 nasce Facebook e nel 2006 Twitter. È dunque un uomo sostanzialmente pre-digitale per come intendiamo oggi la rete, è un uomo che cresce e sviluppa le proprie competenze e abitudini in una sorta di preistoria della rete. Le sue prospettive appartengono così ad un futuro immaginario in cui era ancora possibile spingere e innovare un disegno moderno e democratico fatto di consuetudini e regole oggi ampiamente spazzate via con la complicità di un neoliberismo che ha messo il turbo ad un sistema capitalistico che non fa sconti a nessuno ed inesorabilmente incapace anche di fare i conti con se stesso.
Troppo giovane e troppo vecchio contemporaneamente dunque? Sì, ma anche troppo debole e fragile per resistere, strattonato in una contraddizione che rinchiudeva le proprie stesse possibilità di riscatto in un mondo ampiamente in decadenza. O almeno allora pareva una contraddizione, in realtà fu ben altro. Come direbbe Marco Belpoliti, eravamo agli albori dell’età dell’estremismo e non fu una contraddizione appartenente all’ambito privato a spezzare i sogni di un uomo di grandi qualità, ma un estremismo violento ad accelerare uno strappo che coinvolse e coinvolgerà almeno due generazioni: colpendo la prima emotivamente e la successiva anche economicamente, arrivando anche a inquinare le falde del terreno e quindi della possibile ricostruzione.
Perché se a cadere fu un Piper superleggero guidato da un pilota inesperto con condizioni climatiche difficili, a far crollare le Twin Towers due anni dopo furono abili terroristi a bordo di voli di linea. La banalità del male in un mondo complesso si è fatta abile ed esperta mentre la giovinezza e l’intelligenza vive l’incubo della confusione e dell’inadeguatezza.
Jonathan Franzen odia ogni cosa sia Apple, rifiuta la rete per scrivere e fugge da ogni forma tecnologica che sia wearable. Franzen ha avuto successo con i suoi libri, ama il birdwatching e scrive per The New Yorker; in sostanza vive in una riserva (più o meno naturale). E non siamo sicuri che questo valga qualcosa di più di sopravvivere come ebbe a dire il suo caro amico David Foster Wallace.
John Kennedy Junior rimane nelle foto come nelle sue bizzarrie (ad esempio l’irrazionale, ma divertentissima George, rivista politica e pop da lui fondata) a indicare un tempo che avremmo voluto felice, che avremmo voluto carico di speranza e di riconoscimenti per noi e per i nostri simili. Per quelli pronti a rischiare e a rilanciare anche nel nuovo secolo quello che ci appariva come il meglio del Novecento. Ora non sappiamo nemmeno se il meglio del Novecento siano state alla fine di tutto solo le illusioni, ma di certo il rischio si è tramutato in un’imperdonabile quanto inspiegabile inadeguatezza e il rilancio è andato totalmente fuori campo. Ci adattiamo così ad una ricostruzione che ci appartiene forse per l’esperienza e le competenze che con le unghie abbiamo strappato via di volta in volta da ciò che volevamo costruire e da ciò che avremmo voluto essere. Afferriamo dei meriti e prendiamo posizione solo perché rimaniamo maledettamente narcisi ed egotici, ma nella migliore delle ipotesi siamo al servizio di chi dopo di noi e già con noi ci possa aiutare a capire meglio le cose e chi eravamo. Camminiamo di sbieco schiacciati tra la nostra passata terra straniera ed un futuro che non ci apparterrà mai totalmente. Gonfi di rimpianti e di paure siamo persi anche noi in qualche fredda acqua del rimpianto: inadeguati quanto basta, rassicurati quanto serve.
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