Costume
Il genio del pataccaro Trump, visto da sinistra
“Se Trump non avesse ereditato 200 milioni di dollari, sapete dove starebbe in questo momento?”, ha chiesto rivolto alle telecamere Marco Rubio, giovedì scorso, durante l’ultimo dibattito televisivo tra repubblicani. A vendere orologi a Manhattan, ecco dove starebbe. La battuta era buona e forte, e per un attimo Rubio ha pensato di averla azzeccata davvero; la voce per un attimo gli ha tremato. Il colpo l’aveva assestato al termine di una sequela ubriacante: ha accusato Trump di avere diverse bancarotte sul curriculum, processi gravi ancora in corso, di aver assunto lavoratori a nero; di essere, fondamentalmente, un contaballe e un parvenu.
Ma l’imprenditore dalla capigliatura impossibile, appoggiato allo scranno di fianco al suo, non si è innervosito né scomposto e, con l’aria di chi dice “Andiamo, ragazzo, tutto qui?”, si è scrollato il proiettile di dosso. Ha gonfiato la pappagorgia, irrorato il faccione paonazzo e ha proseguito lo show. Il suo. Il pubblico ha riso come di dovere, ed è finita lì.
L’intenzione di Rubio era di far passare Trump per pataccaro, un avatar dei peggiori valori newyorchesi: l’imbroglio e il raggiro, la sbruffoneria e l’arte di arrangiarsi; non un self-made man dal formidabile intuito, ma un banale pappone di strada; uno alla Harvey Keitel, per intenderci, che avresti visto nella Times Square prima di Giuliani. Non appartieni al nostro club, sembrava dirgli Rubio, e se non fosse per tuo padre saresti parte della feccia. Una battuta con una certa dose di verità, ma anche di palpabile classismo.
I pataccari newyorchesi evocati da Rubio, quelli della New York anni Ottanta e Novanta per intenderci, quelli dell’epoca d’oro di Trump, erano il simbolo di un inferno sguaiato ma vitale. Un posto dove si poteva ancora scioperare e bloccare una città. Dove il dollaro pesava davvero, e così i salari. La working class bianca, che oggi adora Trump e lo segue come una rockstar se lo ricorda bene. Questo è un mondo che sta morendo, e prima di morire vuole azzannare gli algidi professionisti dell’iperliberismo. Alla faccia delle femminucce. Alla faccia delle minoranze. Alla faccia del politically correct. Ma Rubio è troppo alienato dalla realtà, troppo studiato a tavolino per capire tutto ciò. Come un adolescente in fase ormonale con problemi di autocontrollo, ha sparato le sue cartucce troppo in fretta e fucilata è finita nel vuoto.
Ma non è stata solo l’esecuzione di Rubio ad essere carente: è la difesa impermeabile di Trump, la sua tracotante retorica da imbonitore, oliata da decenni di interviste, assedi mediatici e scandali, sempre al centro delle attenzioni pubbliche, a fare le differenza. E chi sono ora queste amebe che si vantano d’essere più a destra di lui? Quando Trump esplodeva in tutta la sua arroganza negli anni Ottanta, Cruz e Rubio erano ancora ragazzini (sono nati rispettivamente nel 1970 e nel 1971). Quando Trump era il simbolo del capitalismo di Gordon Gekko e già bersagliato da decine di canzoni hip-hop, Cruz e Rubio giocavano con l’Atari.
La grande forza di Trump è anche nel modo in cui mischia e confonde le linee ideologiche. Ha detto che Planned Parenthood (un network di organizzazioni che si battono, tra le altre cose, in favore dell’aborto) fa grandi cose. Ha detto che per colpa di George W. e pure di Hillary gli americani hanno sperperato tre fantastiliardi di dollari in guerre inutili. Ha detto che Ronald Reagan, il semidio dei repubblicani, era sì, insomma, “piuttosto conservatore”, ma non un geniale ideologo come lo dipingono i fanatici del Grand Old Party. Mentre anche gli hipster di destra, per sentirsi moderni, si genuflettono al ricordo del 40esimo presidente dell’Unione, già trent’anni fa Trump lo liquidava come sopravvalutato, dicendo che dietro quel sorriso da attore consumato c’era poco e nulla.
E ancora: Rubio spinge per una sanità privatizzata; Trump promette che nella sua America nessuno morirà per strada. Questa sembrerebbe una posizione grillescamente populista in Europa, ma in America è capace di scatenare Cruz al punto da accusare Trump – il miliardario Trump – di socialismo. E questo in un Paese dove la parola “socialismo” sta diventando, incredibilmente, sempre meno tabù. Mala tempora currunt per i neocon.
C’è quasi da essere perversamente affascinati da questo buffone, che sta ridicolizzando la nomenclatura repubblicana in cinque mesi come non hanno mai fatto i movimenti di sinistra in dieci anni. Dall’11 Settembre a oggi i liberali si sono impegnati a fondo, anche a casa nostra, di trovare una qualche traccia di presentabilità nel GOP, di far andare d’accordo gli islamofobi europei con i blogger della destra americana, la modernità di certe posizioni sociali con una spaventosa aggressività in economia (lasciando scappare qui e là la propria natura, specialmente in tema di aborto). Ebbene Trump ha fatto e sta facendo poltiglia di tutto ciò. Con rozzezza, inciviltà, e guizzi di genio. È un maestro dell’insulto.
Due giorni fa il Super Tuesday ha di fatto sancito il definitivo trionfo di The Donald, e l’indebolimento di Sanders in campo democratico. O forse no. Statisticamente parlando, non è stata ancora la giornata decisiva. Come in un campionato dall’andamento incerto, però, la sfida diretta tra le squadre più in forma può determinare contraccolpi psicologici difficilmente risanabili. Il problema non è che Trump è imbattibile. Certo, non sarà battuto da Rubio o da Cruz se restano legati all’attuale strategia: gli americani non hanno interesse a sapere chi è più conservatore (i santini possono restare nel cassetto) o ipocrita (tutti i politici lo sono, dicono i sondaggi d’opinione). E in fondo tutti hanno comprato orologi di bassa marca, o tifato almeno una volta un pataccaro in qualche pellicola. Il problema è che Trump, in fondo, non è un’aberrazione, ma la naturale evoluzione di un partito che per otto anni ha fatto opposizione spietata attingendo a piene mani a bigotteria, razzismo e xenofobia.
Il dramma è che se io fossi musulmano o ispanico in America sarei terrorizzato da una presidenza Trump. E io non vorrei vivere in un Paese dove i musulmani o gli ispanici sono terrorizzati.
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