Letteratura

Dalla rivolta alla gentrificazione: il fuoco spento delle città

13 Marzo 2016

C’è davvero differenza tra una città messa a ferro e fuoco e una città gentrificata? Il grado di violenza espresso è realmente diverso? E soprattutto quali le conseguenze più nefaste, quelle della rivolta urbana o quelle della gentrificazione? Le città sono luoghi equivoci il cui equilibrio spesso dista parecchio da quelle che sono le più prevedibili regole di decoro come anche di vivibilità.

Attraversare rue des Francs-Bourgeois nel cuore del Marais attraverso le stupende pagine di Leo Malet significa percorrere un territorio a rischio e decisamente pericoloso in cui, come accade in Febbre al Marais (Fazi, 2002), non è sorprendente trovare il vecchio usuraio morto in un lago di sangue nel suo appartamento. Il Marais era infatti, fino a ben oltre la metà degli anni Cinquanta, un quartiere della mala parigina – malridotto e molto paludoso – in cui i piccoli e i grossi traffici si potevano facilmente celare tra le strette stradine e i vicoli del quartiere casba ai confini con place de la République. Un quartiere proletario e fatiscente che fu salvato nel 1962 solo da Malraux che con un’apposita legge impedì quella che pareva una naturale e ovvia demolizione.

Leo Malet (oggi recentemente riscoperto e riproposto sempre da Fazi con uno dei suoi migliori titoli, Le acque torbide di Javel) sa cogliere alla perfezione l’equilibrio del quartiere definendo, attraverso i personaggi e il loro ruolo, il senso più insito del Marais: quel filo invisibile che attraversa con coerenza la storia di quell’agglomerato di case bianche ammucchiate l’una all’altra. Il Marais di Leo Malet è in sostanza vivo e pulsante, centro di affari loschi quanto di una vitalità oggi spazzata via da una demolizione diversa e probabilmente peggiore da quella bloccata da Malraux: una gentrificazione che è puro turbo-capitalismo, una violenza economica la cui estetica, mista ad un presunto gusto, cela una differenza di classe e per la quale l’equilibrio e gli abitanti del vecchio quartiere vengono allontanati in nome di un’economia urbana della competizione.) In sostanza oggi Leo Malet non avrebbe nulla da scrivere di un quartiere ridotto a giardino d’infanzia per abbienti tardo adolescenti (molto tardo).

Da pochi giorni in libreria Città in fiamme (Traduzione di Massimo Bocchiola, Mondadori) di Garth Risk Hallberg stupisce per l’esplosiva qualità letteraria che riesce a contenere dentro un corpo di oltre mille pagine mondi multipli con un linguaggio a tratti mimetico, ma che rimane profondamente autonomo sia dalla retorica nostalgica degli anni Settanta sia dalla loro mitologia. Risk Hallberg costruisce un impianto mobile, a tratti liquido e a tratti fortemente solido nella sua forza emozionale in grado di superare (finalmente) lo sguardo stanco di un cinico postmodernismo. In sostanza è pura letteratura e un abbandono senza rimpianti di ogni stanca teoria. Certamente alle spalle si respira una elaborazione non banale e soprattuto erudita, ma il segno è nella capacità assolutamente rara di Risk Hallberg di renderla, oltre che funzionale alla letterarietà della pagina, liquida: quello in cui si trova a nuotare il lettore è infatti un liquido uniforme che s’increspa solo all’incedere della lettura e al suo intimo ritmo.

Città in fiamme è il racconto epico di una New York che vive tra la violenza di Scorsese e l’incanto cinico di Lou Reed, ma senza alcuna linea di demarcazione: l’impasto è compiuto. La nascita del movimento punk, gli anni Settanta tra droga, violenza e tributi alla rivoluzione appiano in questo romanzo l’essenza della luce di una città, vera e propria protagonista assoluta. La luce di New York e le sue ombre sono la tavola su cui incide l’autore con cura e attenzione, la profondità è qui il segno evidente di una superficie assorbente. La New York di Città in fiamme ha la forma icastica di una città invisibile perché accecante, un’esplosione temporale come dinamitarda. New York brucia di gioventù e di rivoluzione, il bagliore non è ancora brace e la brace non è ancora la cenere dell’undici settembre quando tutto divenne estraneo anche il terrore.

Opposto a Città in fiamme è invece Giorni di fuoco di Ryan Gattis (Traduzione di Katia Bagnoli, Guanda). Dove nel romanzo di Garth Risk Hallberg tutto è esploso, nell’audace poliziesco di Gattis è tutto invece in implosione, una rivolta interna. Al centro di Giorni di fuoco vi è infatti il caso di Rodney King vittima nel 1991 di un violento pestaggio da parte di vari agenti di polizia, e la Los Angeles che in seguito all’aggressione viene messa a ferro e fuoco, dinamica che precede temporalmente i disordini (termine quanto mai indicativo) di Londra del 2011. Nel romanzo di Ryan Gattis dal tratto corale e vibrante la forza deriva tuttavia dal lamento, dalla sconfitta, entrambi combustibili efficaci per una rivolta, però, non contro il cielo, ma direttamente nelle e alle strade di una città estranea ai suoi stessi abitanti. Non ci sono compagni di viaggio, ma solo nemici e corpi ammazzati di amici già persi da tempo. Giornate di fuoco in una Los Angeles con la faccia disumana e trasfigurata da una sconfitta priva di ogni possibile riscatto. Una violenza che è il rigurgito di un dolore impossibile da trattenere: non sono fiamme quelle che illuminano il cielo metallico di Los Angeles, ma lacrime.

In questi due romanzi, entrambi simili quanto opposti, le città hanno la forma di una prigione inviolabile in cui tutto è impedito agli abitanti che, ridotti al rango di batteri necessari, non sono più protagonisti di alcuna forma di desiderio. Vite di periferiche relazioni, stati sottomessi di acuto malessere di cui la città diviene il dominus, l’agente perturbante che, mutate le proprie sembianze e il proprio ruolo, perde ogni dialettica di senso con gli abitanti. Geniale e premonitore in tal senso è La scopa del sistema di David Foster Wallace che potenzialmente è leggibile come un trattato psicanalitico sull’effetto della gentrificazione.

Tuttavia non va frainteso l’aspetto letterario di Città in fiamme come di Giorni di fuoco che è l’elemento distintivo e qualitativamente capace di dare al racconto anche uno sguardo sociale e antropologico. La religiosa fiducia che è in grado di generare la letteratura è figlia di una visionarietà che solo la lettura emotivamente coinvolgente delle pagine di questi due romanzi è in grado di restituire. Un equilibrio di rara intensità che si gioca sul corpo delle città e che aiuta in seconda battuta anche a meglio comprendere la strettoia pericolosa dentro cui stiamo vivendo gli ultimi vent’anni. In tal senso viene in soccorso l’agile e prezioso saggio di Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (Il Mulino) che con chiarezza e precisione spiega l’evolversi sociale ed economico di una mutazione che si potrebbe dire antropologica dei centri urbani italiani, europei e americani. Un confronto serrato e orizzontale capace di offrire un quadro mai banale e anzi estremamente raffinato e in chiave divulgativa di un ruolo, quello delle città che è radicalmente cambiato nel giro di pochi anni nell’inconsapevolezza quasi assoluta dei suoi abitanti.

Se le fiamme di New York e le rivolte di Los Angeles erano figlie di un disagio e di un’esigenza di cambiamento forte e sociale di logiche capitalistiche disumanizzanti, la gentrificazione è la faccia felice di un futuro elegante e per pochi capace però di attrarre e distrarre chiunque proiettandoli in una finzione sognante da cui molti verranno duramente esclusi. Il buon Nestor Burma di Leo Malet sapeva infatti che la morte dell’usuraio non era che l’inizio di una serie di imprevedibile complicazioni.

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