Napoli
“Scampia non è solo Gomorra”. Intervista a Davide Cerullo
Nel 2006 un libro che vende 12 milioni di copie in tutto il mondo; due anni dopo il film di Garrone, che incassa oltre 46 milioni di dollari; nel 2014, la prima serie, un budget di 14 milioni di euro, seguita dalle altre quattro, l’ultima in onda su Sky dallo scorso 19 novembre; in mezzo, lo spinoff cinematografico L’immortale (2019), 6 milioni di euro al box office. Insomma un libro che scalò le classifiche sospinto dall’idea che si trattasse di un atto di coraggio civile trasforma l’autore del libro, soggettista del film e ideatore della serie, Roberto Saviano, in eroe, costretto a vivere sotto scorta, nonché in acclamato opinion leader, ma soprattutto diventa il basamento su cui edificare un business da centinaia di milioni di euro, anzi di dollari, visto che Gomorra sfonda anche all’estero. Nei giorni del debutto della quinta serie tv abbiamo ricevuto un testo di Davide Cerullo. Nato a Scampia, un passato criminale che lo ha portato in carcere e qui ad abbracciare un’altra filosofia di vita, Cerullo oggi è l’animatore di uno spazio aperto ai bambini del quartiere, L’albero delle storie, che ha fondato, oltre che scrittore e fotografo, pubblicato da Feltrinelli e Gallimard. Nel testo, che riproduciamo in calce, parla di una “una Scampia vera, che si trova proprio a un livello diverso ormai rispetto alla narrazione di Roberto Saviano”, critica un giornalismo di denuncia che “non è finalizzato a capire fino in fondo quello che succede, e soprattutto a convivere con le difficoltà e approcciarle dal punto di vista giusto, cioè quello dell’umanità delle persone che abitano questi luoghi” e conclude: “Saviano nel suo modo narrativo è proprio vecchio, forse sbaglierò, ma credo che nel giro di un anno questo atteggiamento sembrerà una cosa archeologica”. Lo abbiamo contattato per chiedergli qualcosa di più.
Perché hai deciso di scrivere queste cose?
Quando sono usciti il libro e poi il film ho visto qualcosa di molto forte, di molto importante, un linguaggio e un modo nuovo di fare denuncia. Certo, da subito ho criticato l’utilizzo di immagini che mi sembravano eccessive, ma era una denuncia e ci stava. Poi quando è arrivata la serie ho visto un prodotto fatto bene, con attori bravi, ma allo stesso tempo un accanimento, una forzatura nel dipingere il protagonista come un malvivente più forte di tutto e di tutti, e questa violenza inaudita che entrava nelle case di famiglie, di bambini già nati fragili. Non mi appariva più una denuncia. Era business. Un prodotto finalizzato a fare soldi e che in qualche misura aiutava a tenere in vita la realtà che diceva di denunciare.
Se ho capito bene vuoi dire che nella serie, a differenza del libro e del film, c’è una demonizzazione che diventa anche mitizzazione, in cui i personaggi vengono descritti come eroi, negativi, ma proprio per questo anche dotati di fascino.
Diciamo che probabilmente per gli autori c’è la denuncia e insieme la percezione del fascino di un certo tipo di potere. Saviano è rimasto incastrato in questa dinamica. Se il tormento che ti muove è quello che ti spinge a desiderare che certe cose non accadano più, allora devi fare delle cose. Non lo si fa a parole, scrivendo libri, lanciando anatemi. Si fa abitando un territorio, sostenendo quel territorio e le persone che ci abitano, cercando di dare una mano, di risolvere i problemi. Invece questo non è mai stato fatto. Ti faccio un esempio. Molti ragazzi che hanno fatto il film sono finiti male, sono andati in carcere. Io penso che Garrone, Saviano avrebbero potuto aiutarli a continuare e a riuscire nella vita. Invece ci si è serviti della loro immagine, delle loro capacità, dopo di che sono stati abbandonati.
E questo, dici tu, rischia di fare dei danni…
Beh, prova a immaginare un bambino che non ha dei genitori con un’impalcatura culturale che permetta loro di impedirgli di vedere certe immagini. Un bambino davanti a un televisore, che vede un killer che spappola la testa a una persona. Io mi sono chiesto che effetto potesse avere e che danni potesse fare. Come andiamo a togliergli questa immagine dalla testa? Perché un prodotto di questo tipo nella periferia di Napoli, che è già fragile, fa dei danni. Penso che sia una domanda lecita, ma, tutte le volte che gliela pongono, sia Saviano che gli attori si mettono sulla difensiva e si chiudono a riccio.
Lo dici per esperienza?
Tempo fa mi hanno chiesto se volevo fare un incontro con Saviano. Ho detto di sì e gli ho scritto, facendogli proprio questa domanda – non dicevo che era colpa sua, ponevo un problema: io lavoro coi bambini e mi sembrava una cosa legittima – ma non ho ricevuto risposta e del resto, se devo essere sincero, neanche mi aspettavo che mi rispondesse.
Il libro di Saviano mi pare abbia il pregio di mostrare che la criminalità organizzata più che una degenerazione è un ingranaggio a cui l’economia legale affida il lavoro sporco. Ma sembra anche la denuncia di questo meccanismo diventi business. Cosa ne pensi?
Diciamo che si dà lo stesso messaggio, cioè che alla fine contano i soldi e che se non ce li hai non sei nessuno. Del resto è un messaggio che arriva anche attraverso la televisione, pensa ai giochi in cui l’obiettivo è vincere dei soldi.
Una cosa che mi ha colpito nella serie è che sembra che non ci sia un mondo al di fuori della criminalità: non solo non c’è lo Stato, ma non c’è neanche la gente normale, che fatica, cerca di barcamenarsi e non necessariamente condivide l’andazzo, anche se non ha la forza di opporsi.
Che nel film lo Stato sia assente mi trova d’accordo, perché uno Stato che proprio con la sua assenza ha permesso che succedesse quello che è successo a Scampia in un certo periodo storico dovrebbe andare a casa. Invece non condivido l’idea che non si salvi nessuno. Gli irrecuperabili non esistono. Se tu vieni qui e ti affacci a un balcone alle 5 di mattina vedrai gente che va a lavorare, magari spingendo l’auto perché non vuole partire o in motorino. C’è un’umanità impressionante. Ma tanti sono scoraggiati, perché sentono di non avere un futuro. Tanti sono depressi e prendono psicofarmaci e questo è un aspetto di cui nessuno parla.
Cosa ne pensa la gente di Scampia? È contenta, si sente strumentalizzata o non è molto interessata?
Le gente deve mangiare. Io una volta ho provato ad andare a bloccare il set, ma i ragazzi di qui mi hanno detto: “Hai ragione, ma ci danno 80-100 euro a giornata”. Qui ci sono la povertà e la miseria. La povertà vuol dire non avere da mangiare, la miseria non avere istruzione. Per poter scegliere devi essere libero e qui non lo sei. Perciò quando sono venuti a girare hanno ricevuto un’accoglienza positiva, non solo per la questione economica. La gente vede gli attori ed è affascinata, vuole parlare con loro, farsi un selfie. E questo contribuisce ad alimentare il fascino di cui parlavamo. Io ho visto tanti boss sentirsi rappresentati da questa serie. Si sentono rappresentati e la sentono come una cosa loro. A me capita di andare in giro e siccome sanno che sono di Scampia mi chiedono di Gomorra, della serie tv, di Saviano. Il sottinteso è: beato te che vieni da lì. Scampia fa paura perché ha mostrato il volto crudele del male. E questo alimenta persino un turismo dell’orrore. La gente viene da fuori a visitare questo quartiere, fanno dei video senza neanche scendere dall’auto, si fanno i selfie. Per la fabbrica dei buoni il degrado è un carburante.
C’è stata un’operazione di risanamento urbanistico con l’abbattimento parziale delle Vele. Ma il lavoro? I servizi? È cambiato qualcosa?
A me sembra che sia tutto fermo. Chi si muove è la società civile.
Cosa intendi per società civile? Le associazioni che lavorano sul territorio?
Sono quelli che cercano di far funzionare le cose. Qui ci sono tantissimi bambini e poi giovani, 22-23 anni, che hanno tanti sogni. Io devo avere la possibilità di poter sperare. Ma qui non posso sperare. In che cosa spero? Qual è il mio presente? Qual è il mio futuro? Per questo io a Scampia voglio la bellezza, la poesia, il teatro, le librerie. Voglio un ambiente dove si fa musica, si sta insieme in un modo diverso, voglio creare dei punti di ritrovo per i giovani. Scampia è un serbatoio anche di creatività. Ci sono giovani che vogliono fare musica. Perché non li aiutiamo a fare una cosa bella e in questo modo evitiamo che diventino un problema? Qui ci sono diverse realtà, molte non sono attive, molte fanno business, poche sono quelle che fanno sul serio e mettono al centro la vita dei bambini. Per me la società civile è questa, sono realtà come il Centro Hurtado, il Mammut, Gridas e poi L’Albero delle storie, che ho fondato, che è un atto rivoluzionario e di magia totale. Ci sono gli animali, il bosco, la scuola all’aperto, il gioco e funziona. Però non riceve alcun sostegno. Perché nessuno qui vuole il cambiamento.
Perché? Scampia fa comodo a qualcuno? A chi?
A troppi. Ad esempio ai cosiddetti paladini dell’antimafia, agli editori delle anime perse, che pensano che basti leggere qualche libro per risolvere la situazione. Le istituzioni? La polizia cerca droga, come se il problema qui fosse solo la droga. La politica non c’è, non c’è una politica che voglia realizzare una comunità, il fare insieme. Perché invece di riempirci la bocca con la parola legalità non parliamo di lavoro, di investimenti, di creare qualcosa? Denunciare, fare repressione senza fare prevenzione è una perdita di tempo.
Vuoi dire che Scampia, mantenuta così, è un potenziale serbatoio di consensi?
Scampia può essere un serbatoio di consenso perché non ha la parola. La peggiore forma di oppressione è essere muto. Il problema è l’istruzione. Se non hai il sapere sei spacciato e automaticamente diventi un serbatoio di consenso per ciò che è negativo. D’altra parte chi invece ha il potere del sapere non lo usa per sostenere, ma per creare degli assistiti. Lo hanno fatto anche Sepe e la chiesa napoletana. Ma la chiesa ai poveri deve fare giustizia, non la carità. Chi ci tiene così non è umano. Viviamo in uno stato di attesa, in uno stato di emergenza continua che sembra non debba finire mai. Napoli è una città che sta bene nel male. Lo Stato, la scuola, la società, la chiesa, ognuno ha il suo grado di colpa. Bisogna rivedere tutte queste cose. E non sono pessimista, sono realista.
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IL TESTO DI DAVIDE CERULLO
La critica è una questione morale. (Walter Benjamin)
Poter esprimere il proprio pensiero credo sia un atto indiscutibile.
Provo con quella che è la mia conoscenza, la mia esperienza, ad abitare il territorio di Scampia praticando la strada e tessendo relazioni. Lo scrivo e ne parlo tutti i giorni, ma è soprattutto nel concreto e nella pratica quotidiana, pur con tutto il carico dei miei limiti e la complessità dei problemi di un territorio con molte zone depressive, che mi sento di rappresentare una Scampia vera, che si trova proprio a un livello diverso ormai rispetto alla narrazione di Roberto Saviano. Credo che sia finito quell’atteggiamento dell’informazione nei confronti di questi fatti, non solo a Scampia ma un po’ ovunque, che è denuncia nel racconto giornalistico, ma non è finalizzato a capire fino in fondo quello che succede, e soprattutto a convivere con le difficoltà e approcciarle dal punto di vista giusto, cioè quello dell’umanità delle persone che abitano questi luoghi. Voglio dire senza offesa, Saviano nel suo modo narrativo è proprio vecchio, forse sbaglierò, ma credo che nel giro di un anno questo atteggiamento sembrerà una cosa archeologica.
Da queste parti la violenza ha un fascino terribile che nasce da un’ingiustizia subita e non riscattata, cicatrizzata, e il suo ripetersi come se non ci fosse altro modo o via d’uscita. Spesso nella cornice delle ingiustizie si passa da vittime a carnefici e viceversa, perpetuando il dolore. Per questo credo che la serie Gomorra non sia più una denuncia e che non serva più. A volte ho la sensazione che quando si “campa” solo di denuncia del male, alla fine si voglia perpetuarlo, anche a spese di chi lo subisce. Oggi Scampia non ha bisogno di essere illuminata per le sue catastrofi, o salvata dai suoi traffici; perché la realtà dura da affrontare è che Scampia non ha nessun bisogno di scalare classifiche di degrado.
Non si può pensare di continuare a offrire solamente un’immagine deformata di un territorio fragile, dando forza al fascinoso luogo comune per la divulgazione retorica e pubblicitaria del proprio nome. Bisogna avere il coraggio di uscire dai recinti del passato, da un linguaggio che si usa per i propri utili di basso valore. Bisogna avere il coraggio e l’onestà di chiudere con il vizio di sentirsi delle vittime o dei supereroi, solo perché si viene da un territorio che è passato attraverso il fuoco. Scampia non è semplicemente il quartiere del malaffare, non è solo il territorio delle camorre che spesso tornano utili a quelli che dicono di combatterle. Bisogna avere il coraggio di fare le cose perché ne sentiamo la responsabilità e non perché ci diano visibilità. Bisogna avere il coraggio di essere disposti veramente a voler cambiare un territorio con le sue innumerevoli complessità, facendo emergere sempre più forte la positività dei tanti che si impegnano tutti i giorni per un bene comune. Bisogna avere il coraggio di rompere con quella nostra incapacità di leggere ambienti diversi dal nostro immaginario abitudinario, per cominciare a inciampare in possibili speranze.
Penso che se un giorno Scampia non ci fosse più, o meglio, non ci fosse più quella Scampia delle Vele, della camorra, dei senza speranza, il luogo maledetto del degrado sociale, e magari avesse prevalso la Scampia onesta e dignitosa, che pure silenziosamente esiste, molti non saprebbero né più scrivere né più parlare di una Scampia diversa.
Molti giornalisti, scrittori e opinionisti magari meridionalisti, si ritroverebbero di fronte alla scelta dolorosa di dover cambiare posto, eleggendo qualche altro quartiere a simbolo del Male.
Troppe volte in questi anni, soprattutto da Gomorra in poi, ci si è avvicinati a Scampia sperando di replicare con successo la denuncia-racconto di Roberto Saviano: non per cercare davvero di capire questo complicato e difficile territorio, ma per sfruttare questo nuovo immaginario collettivo su Scampia come unica sede della Camorra.
Sinceramente l’Anticamorra gridata come un Vangelo giusto, mi ricorda l’effetto che mi facevano la Chiesa e l’Oratorio da bambino, a me che crescevo nelle zone grigie delle periferie. Tutto bello, tutto solare, tutto pulito, tutto giusto. E quindi non era per me, era lontano dalle mie “colpe”, peccati originali, ambiguità, complessità. Avrei sentito più vicino un profeta dolente e di poche parole, a bassa voce, perché la vita non è sempre chiara, facile. Resistere da dentro alle cose brutte necessita di comprensione, non di scelte definitive, trincee, guerre. L’anticamorra si fa ascoltando, e al boss non si contrappone il supereroe, ma la comunità che resiste e può vincere.
Quindi cerco di proporre la mia versione di “abitare questo luogo” che prende spunto dall’antico significato della parola “abitare” che vuol dire ” continuare ad avere”, perché è questo che io propongo, qui a Scampia, dove i bambini esistono ed hanno questo posto in maniera continuativa e non solo durante i ciak e le stagioni delle serie tv; questo posto va vissuto esattamente come ogni altro, coltivando piante e prendendosi il tempo per instaurare legami e progetti di futuro.
All’infanzia che rischia di cadere nel tranello ingiusto del sentirsi ” predestinata” perché nata in un non luogo, è giusto garantire spazi che possano essere riparati e sicuri proprio qua, per comprendere che il senso di salvezza può diventare di casa anche dove, secondo tutti, c’è solo inferno.
Portare alla portata di tutti il benessere dovrebbe essere un imperativo non solo per chi vive a Scampia, ma anche per quelli che abitano città, colline e deserti altrove, la lontananza dalla criminalità non la sancisce una fuga o un viaggio, ma un progetto che metta al centro l’infanzia e la bellezza.
Alle Vele, come ovunque, un bambino nasce bambino, quindi l’unica soluzione per garantire che possa non sentirsi parte di una tragedia è costruire intorno a lui un’isola del tesoro; ed è questa scelta educativa che dobbiamo portare avanti, smettere di dare per scontato che i problemi siano più grandi rispetto alle mille occasioni di felicità.
Per queste occasioni vale davvero la pena vivere… a Scampia e in ogni altro pezzo di mondo.
DAVIDE CERULLO “Nato e cresciuto a Scampia, Davide si emancipa dalle trame della malavita e trova il suo riscatto nella poesia, nella fotografia, nell’educazione. Una storia di resistenza contro le forme di oppressione, di isolamento, di omertà. Un luogo di dialogo, di partecipazione comunitaria, di riscatto di un’infanzia negata dall’oppressione del sistema della criminalità organizzata. Un luogo che restituisce ai bambini del quartiere quei diritti che gli sono stati a lungo negati: il diritto all’infanzia, al gioco, all’ascolto, al dialogo, il diritto ad abitare luoghi sani e felici” (dal sito L’albero delle storie). Tra i suoi libri: Ali bruciate. I bambini di Scampia, con Alessandro Pronzato, Paoline Editoriale Libri, 2009; Parole evase, Edizioni Gruppo AEPER, 2013; La ciurma dei bambini e la sfida al pirata Ozi, Dante & Descartes, 2013; Diario di un buono a nulla. Scampia, dove la parodia diventa riscatto, Feltrinelli, 2016; Poesia cruda. Gli irrecuperabili non esistono, Marotta e Cafiero, 2017; Visages de Scampia: les justes de Gomorra, con testi di Christian Bobin, Erri De Luca e Ernest Pignon-Ernest, Gallimard, 2018; Fiori d’asfalto, con Paolo Vittoria, Società Editrice Fiorentina, 2019, L’orrore e la bellezza. Storia di una storia, Anima Mundi, 2021.
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