Cinema

Sarà stata la mano di Dio?

21 Dicembre 2021

Non provo particolare trasporto per la cinematografia italiana attuale. Per la precisione direi anzi che mi ci accosto sempre con cauta diffidenza (è una ridondanza ma rende l’idea). Le volte in cui mi sono lasciato persuadere da qualche entusiasta a vedere un film italiano recente non posso dire di essermela cavata bene. Oramai mi sono abituato, in questo come in altri campi, a considerarlo un problema mio e non della situazione al contorno (anche se per me, strettamente parlando, è esattamente lo stesso) e, di conseguenza, non ho certo la pretesa di convincere qualcuno o di indurlo a credere che io, qui, voglia fare una qualche recensione o disamina della cinematografia italiana né di un film in particolare. E’ possibilissimo (anzi, mettiamola così: è certo) che io stia solo esprimendo un’idiosincrasia. Che poi, per inciso, sia anche personalmente persuaso che la “critica” – di qualunque genere – abbia sempre una sostruzione idiosincratica e si fondi sulle antipatie e sulle simpatie di chi la fa (al netto delle chiacchiere sulla “oggettività critica” che fanno un po’ ridere i polli) è un altro discorso. Comunque stiano le cose il fatto è questo: il cinema italiano di oggi nel migliore dei casi mi irrita (e dico “il migliore dei casi” perché, per quanto mi riguarda, l’irritazione è uno stato d’animo produttivo) nel peggiore mi deprime e basta. Nella media mi annoia a morte. Se dovessi fare il nome di un film italiano girato nel XXI secolo che mi è piaciuto senza riserve sarei in grado di nominarne appena uno che, per di più, italiano lo è solo per modo di dire e forse solo perché è stato girato da un regista che per puro caso è nato in Italia. Parlo di Still Life, di Uberto Pasolini. Neppure l’attore protagonista di questo film infatti è italiano. E forse è proprio questo il punto decisivo. Perché lo stile di recitazione di Eddie Marsan è quanto di più lontano possa immaginarsi da quello che in Italia viene ritenuto “Grand Style” (di cui l’attore preferito di Sorrentino mi pare un esempio da manuale) e che si può sintetizzare così: tutto va bene fuorché non farsi notare. Se avessi dovuto dare un Oscar nel 2014 perciò, lo ammetto, non lo avrei dato a “La grande bellezza” ma a “Still Life” e senza un attimo di esitazione. Ma io, con gli Oscar, per fortuna di tutti e mia in particolare, non ci ho niente a che vedere. Devo però dire una cosa, a scanso di equivoci. Sorrentino mi è straordinariamente simpatico. In primis dal punto di vista fisiognomico. La sua faccia mi piace tantissimo (incomparabilmente più della mia, per dire…). E’ la faccia dell’amico con le basette e il ciuffo (che gli invidi perché sei calvo e non te lo puoi permettere) quello con cui passi una bellissima giornata al mare e, al ritorno, si mette a cantare “Funiculì Funiculà” per tenere allegra la compagnia; ma è così creativo che, sapendo che quella canzone non piace a nessuno, la interpreta nervosamente, alla Talking Heads. Il più divertente di tutti; quello che fa le battute senza ridere; e anche il più intelligente, che però non si mette mai in mostra. Per il poco che l’ho sentito in tv, mi piace anche il modo che ha di dire le cose, perfino quando le cose che dice potrebbero non piacermi. E da quel che ne ho letto mi pare che scriva anche bene. Insomma potrei innamorarmi di lui. Ciò premesso, però, ci sono i suoi film. E questi film sono italiani. Inequivocabilmente. E tra tutti i suoi film c’è quest’ultimo che, porco mondo, parla nientemeno che di Napoli e di Maradona! E’ vero che la durata di “E’ stata la mano di Dio”, in effetti, avrebbe già dovuto mettermi sull’avviso. Due ore e dieci, che sommate con le quasi tre ore de “La grande bellezza” fanno cinque ore che sarebbero quattro film normali. Lo so, questo può non significare granché ma devo ammetterlo: ciò che si protrae mi snerva. E più passa il tempo – meno, perciò, è il tempo che mi resta – più ciò che si protrae mi estenua. Pure la vita, protratta oltre il dovuto, la suppongo estenuante. Il cinema mi piace più adesso di prima, per la verità, e proprio per questo motivo: perché il montaggio è il formidabile strumento di giustizia sommaria, la ghigliottina che quest’arte possiede per tagliare (letteralmente) corto. Ma bisogna usarlo come si deve e non ricamarci sopra. Capra diceva: il cinema è bello perché se ho problemi a gestire un personaggio lo faccio investire da un camion.

Ah…e poi c’è un’altra cosa. Non amo il cinema cinemoso.

Che vuol dire?

Per esempio: una vecchia invita un adolescente in casa per cacciar via un pipistrello dal soggiorno. Dall’evoluzione delle cose si capisce che il pipistrello era una scusa per sedurre l’adolescente. Ma anche no, perché il pipistrello c’era davvero: solo che non si sa che fine faccia, mentre la seduzione viene portata regolarmente a termine. Hitchcock avrebbe fatto sì che la signora allevasse pipistrelli all’uopo. Ma poi le avrebbe fatto sgozzare l’adolescente. O avrebbe fatto sgozzare lei dall’adolescente. Qui invece non succede niente, a parte che l’adolescente perde la verginità (la qualcosa, certo, è rilevante per lui e forse per la vecchia…ma per noi?).

Oppure: l’adolescente va in vacanza a Stromboli col fratello. Siamo, come quest’ultimo si premura di farci sapere, al nove di agosto. Poi rientra e nelle sequenze successive a Napoli si festeggia lo scudetto. A campionato concluso da un paio di mesi…e non c’è niente che suggerisca l’idea di un flashback.

Oppure: per tutta la durata del film abbiamo una sorella in bagno che parla ma non si vede mai se non alla fine. Dissenteria, simbologia o astrologia? Chi può dirlo? Forse letteratura.

Oppure: abbiamo una famiglia della media borghesia, ma i suoi componenti si comportano inequivocabilmente da sottoproletari. Ai registi italiani il sottoproletario, per qualche ragione, piace (Lo chiamavano Jeeg Robot, Dogman, Gomorra…) e così lo ficcano dentro i film appena possono. Fin dai tempi di Pasolini (Pierpaolo) la cosa, appunto, fa molto “Letteratura”. E così ecco una signora che si strafoga di zizzona come una bestia al truogolo ma, al momento giusto, cita la Divina Commedia a memoria meglio di un dantista. E in effetti, a pensarci, anche la borghesia medio-alta romana de “La grande bellezza” era piuttosto un sottoproletariato promosso sul campo.

Wilder, mi pare, diceva al suo operatore: John sfocami questa immagine ché voglio vincere un premio. E i film di Sorrentino, di premi ne vincono tanti. Meritatamente, vorrei aggiungere. Perché il cinema cinemoso, se riesco a farmi capire, è un cinema fatto per essere premiato, un cinema così letterario che trascura banalità come quella di mettere a fuoco l’obiettivo, fare appattare una sequenza con l’altra – magari con la scritta “un mese prima”oppure “intanto nell’altra stanza” di cui ho tanta nostalgia – o un personaggio con se stesso e ascrive tutto allo “onirico” che sta lì a portata di mano come lo scarrafone kafkiano. In questo caso però c’era, come ho detto, anche qualcos’altro. C’era Napoli. E c’era, a cominciare dal titolo, Maradona – con l’apologia indiretta, anche quella tipicamente latina e sottoproletaria, di una delle più sfacciate ruberie calcistiche della storia, di cui normalmente ci si dovrebbe vergognare. Salvo a mettere in campo la demenziale retorica “anti-imperialista” che il nonnino col Panama, da buon borghese-sottoproletario, sfodera nel film. E Napoli, insieme a Maradona costituisce purtroppo una miscela altamente esplosiva, per maneggiare la quale non bastano neppure i guanti ma ci vuole una prolunga meccanica e uno schermo corazzato. Non che io abbia qualcosa contro Napoli o contro i napoletani, per carità…è che sono persuaso che debbano essere aiutati con ogni mezzo, forse più di altri, a salvarsi da se stessi e che abbiano perciò l’assoluta necessità di diventare un po’ meno Napoli, un po’ meno napoletani e un po’ più qualcos’altro. Non importa cosa. Qualsiasi cosa va bene. Lo stesso, intendiamoci, vale per noi siciliani di Sicilia – perché ci sono i siciliani fortunati che di Sicilia non sono – solo trasposta in termini regionali e non urbani…per via del fatto che, volenti o nolenti, noi quaggiù siamo isolati dal resto del mondo da distanze stellari. Nessuno, dalla sera alla mattina, prende e se ne va a Roma come Fabietto. La cosa è molto più complicata. Ad ogni modo non so dire se, così come vale per Napoli, i napoletani, la Sicilia e i siciliani, questo valga pure per Sorrentino e se anche lui insomma abbia forte bisogno, come noi, di essere salvato da se stesso. Però so per certo che questo film non agevola. Comunque, per il nulla che può contare, gli faccio i miei auguri per il prossimo Oscar: agli americani la napoletanità piace almeno quanto la sicilianità. Soprattutto se cinemosa. Perciò quello che ho appena scritto, come sempre, lascia il tempo che trova. A buon rendere.

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