Napoli
Napoli: una delle mille fotografie
Certi giorni, più di altri, Napoli pare una babilonia umana. Capita che i miei umori mal si accordino con quelli della city, con i suoi contrasti, con i suoi gorghi, mentre le armonie dei tetti, delle alture dei palazzi svettano verso il cielo che tutto sovrasta. Ma la city se ne frega della mia luna storta, mi viene a cercare, mi distrae, mi richiama. Le esistenze si svelano da sé e non resto indifferente. Così, mentre attendo la metropolitana, mi si avvicina un ragazzo. Ha un borsone a tracolla, dei calzini tra le mani. Sto per dire che non mi occorre nulla, ma sto zitta. È un secondo, forse due, e realizzo che l’immagine standard del venditore di calzini che ogni abitante di Napoli e provincia ha in testa non collima con questo ragazzo dal viso pulito e fresco, davanti a me. Lui capisce, lo sa che spiazza, lo sa che deve smantellare il muro dei pregiudizi, del terrore quotidiano, ma intende pure che ce la farà ad avere la mia attenzione. Mi guarda, mi spiega che vendere biancheria sotto una stazione non è il suo lavoro, che l’hanno licenziato, che deve crescere una figlia, che Napoli è una città impossibile. Gli credo, mi fido, mentre a qualche passo da noi due tizi si guardano intorno, con un’altra faccia e un’altra voce, e vendono le stesse cose, le stesse scuse. Il ragazzo prosegue, la mia attesa anche. Lui parla ad altri, si racconta in venti secondi. Io adesso potrei mettermi a leggere, tirar fuori dalla borsa il mio libro, infilarci dentro gli occhi e la testa, non guardare nessuno, non interessarmi a questi frammenti di vita non richiesti. Ma è inutile. Lo sguardo vaga da solo. Non mi sfugge niente. Accanto a me succede altro.
Un ragazzo di colore, che si trascina appresso un sacco di borse, sta leggendo qualcosa su dei fogli colorati (gialli, rosa) e piange. Due lacrime gli rigano il volto. Allungo il collo, sbircio: le parole sono in arabo e non capisco. Non so se è una lettera o una preghiera. Scandisce le frasi senza voce, muovendo appena la bocca. Incalza, si ferma, si pulisce la faccia. Commozione e disperazione certe volte hanno facce contigue.
Passa una ragazza giapponese: smilza e diafana nel suo abito porpora, pare saltata fuori da un romanzo di Murakami o da un racconto di Banana Yoshimoto.
Arriverà la metropolitana a salvarmi da questo scivolare in mezzo alla moltitudine? E arriva, infatti. Solo che passeggiare non argina tutto questo osservare, che può fare male se non lo filtri, se non sei ben disposto, se non vorresti saperne di uomini che parlano da soli seduti fuori un portone in un vicolo del centro storico, di vecchine che cercano qualche spicciolo, che ti chiedono aiuto e ti tengono da un braccio per non farti investire dal motorino che non hai proprio visto, presa da lei e dalle sue richieste. Se non vorresti saperne di mendicanti, di poveri su poveri, di solitudini nel caos. Se non vorresti sentirti mangiare viva, pezzo per pezzo, passo per passo, una mattina che volevi camminare e finisci col desiderare solo il silenzio.
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