Calcio
Maurizio Sarri, l’uomo in tuta che ha sedotto Napoli
«Sa cosa mi dà fastidio? Le etichette». Certo che per inquadrare il nostro uomo sotto le luci di scena dalle etichette non si può certo prescindere, d’altronde come etichetta meglio la Toscana rispetto alle amate sigarette, alla favella dell’impiegato in banca e ai 33 schemi su palla inattiva: «la leggenda nacque tanti anni fa -spiega- dove cambiavamo spesso schema e un giocatore disse di averli contati, ma sono molti di meno».
A Vaggio, paese di poco più di mille abitanti a qualche chilometro da Figline, borgo circondato dalle Balze di ghiaia e sabbia del Valdarno che danza tra le provincie di Firenze e di Arezzo, il personaggio del momento è di certo lui, Maurizio Sarri, ormai prossimo 57enne nato sotto il segno del Capricorno, condottiero improvviso di un Napoli Calcio che segna, diverte, sorprende.
Maurizio Sarri l’allenatore emergente, Maurizio Sarri l’impiegato di banca: «mi occupavo per il Montepaschi di transazioni fra grandi istituti: 15 anni fa. Poi ho scelto come unico mestiere quello che avrei fatto gratis», dichiarava a Repubblica all’epoca dell’esordio in serie A, lo scorso settembre, quando era seduto sulla panchina di un Empoli che poi avrebbe saputo stupire tutti conquistando una salvezza tranquilla e lanciando -come da tradizione- diversi giovani calciatori. Lavorare gratis che equivale a un senso di vocazione quasi mistico, detto dal figlio di un operaio edile che iniziò ad allenare nel 1990 “per gioco” e per vocazione, così come tutti quegli uomini di mezza età che siamo soliti vedere o semplicemente immaginare lì in tuta in mezzo al campo di periferia della fredda serata autunnale, mentre lasciano sgambettare ragazzi cercando insegnargli il gioco del calcio come se fosse quel che poi effettivamente è. Un gioco.
Stia, Faellese, poi vittorie a Cavriglia, ad Antella, poi ancora Valdema, Tegoleto fino all’exploit con la Sansovino, portata dall’Eccellenza all’allora C2. Studiava prima Economia e Commercio, poi Statistica. Era il 2001. Intanto lavorava in banca: «nel 2001 ero alla Sansovino, ho intuito che il salto di qualità potevo farlo solo se allenare diventava la mia attività principale. La famiglia ha capito».
La famiglia aveva intravisto il futuro di Sarri, ma anche il mondo del calcio pareva comprendere di buon grado le idee di Maurizio. Di lì a poco un’altra promozione, stavolta in C1, con la Sangiovannese. La C1, il professionismo per un neo-professionista etichettato come un ex impiegato tabagista, sebbene il suo passato vanti anche qualche apparizione nell’undici in campo come rude difensore centrale a livello dilettantistico, uno di quegli stopper all’antica: «era un altro calcio, della zona mi innamorai dopo».
Un punto di arrivo che si trasforma in trampolino di lancio verso la serie B e il Pescara, poi Arezzo -con cui strappa un pari a Torino e Napoli, nel 2006/2007-, Avellino, Verona, Perugia, Alessandria – con cui sfiora la B- e infine tre anni a Empoli, con l’agognata promozione nella massima serie: «Il passo non è stato facile. La serie A adesso la vedo come un completamento e non mi fa molto effetto: il mio obiettivo vero era quello di fare della mia passione un lavoro e ci ero già riuscito. Di certo il calcio non è tutto uguale, ma non è detto che le emozioni e le soddisfazioni interiori siano più grandi se si sale di categoria», queste le sue parole al Corriere della Sera, un anno fa.
Una gavetta lunga, lunghissima, dal chilometraggio lungo, lunghissimo. Quindici anni, ma anche venti, di fatica e di passione -stavolta remunerata, con denaro e risultati-. Già, la fatica. Quella che papà Amerigo gli ha forse inculcato, nella sua carriera da ciclista professionista, perché il ciclismo a detta dello stesso Sarri è uno sport di fatica: «mi ha insegnato che nel calcio, se non fatichi, non ottieni nulla. Nel calcio c’è meno dedizione e meno cultura sportiva rispetto ad altre discipline».
La dedizione, la cultura sportiva. Che da sole però non bastano a spiegare l’eccezionalità di questo fenomeno Sarri, un po’ nuovo e un po’ retrò, una specie di Zeman con la difesa. Macché Zeman, forse saranno le sigarette. Sarri è Sarri. Il metodo, il lavoro, la dedizione, ma anche il dialogo, il rapporto umano, le emozioni e l’amore per lo sport: «Quando abbiamo parlato per la prima volta io e Higuain -ha dichiarato recentemente alla Domenica sportiva- gli ho detto le 98 cose che mi piacevano di lui e le 2 che invece poteva migliorare. Ne abbiamo parlato e ci siamo messi d’accordo». Ora cosa si son detti non è dato sapere, sta di fatto che Gonzalo Higuain, centravanti e stella della nazionale argentina, a vederlo giocare nel Napoli pare stare una meraviglia. Eppure d’estate le sirene di altri lidi parevano incantare l’attaccante sudamericano, eppure sembrava che il progetto Sarri non potesse reggere l’urto di personalità così grandi. Eppure. Eppure dopo le prime non brillanti uscite c’era già qualcuno -anzi, più di qualcuno- anche all’interno della tifoseria napoletana che rumoreggiava e gettava dubbi su quel mister tanto silenzioso quanto poco consono alle passerelle del calcio che conta.
D’altronde due anni sotto la guida di don Rafa Benitez avevano portato alla piazza non molti risultati, più di qualche delusione in base alle aspettative, ma anche quell’illusoria e fatiscente consapevolezza della “credibilità internazionale”, quasi si dovesse raccattare credibilità con i nomi e non col gioco. Insomma, Sarri, l’omone in tuta che si fa portare la moka durante gli allenamenti è certo un simpatico personaggio che ci ricorda gli anni Ottanta, ma che a detta di molti -prima sempre più, ora sempre meno- non potrà andare molto più in là di un leggero rimando a icone del cinema come Oronzo Canà o Margheritoni della Marchigiana.
“Ci siamo ridimensionati” è il pensiero del tifoso napoletano, che pare d’un tratto aver perduto quella fiducia nella ribellione contro il sistema che invece lo ha sempre contraddistinto. Certo è che per Maurizio il Napoli è un treno con su scritto “destino”, dato che Sarri a Napoli ci è nato: papà Amerigo lavorava in un’impresa edile a Bagnoli, questo per due anni. Poi Bergamo, poi la Toscana: «io mi sento di Figline» ha sempre detto rivendicando quel sano campanilismo, «non mi sento toscano, lo sono».
Tuttavia, Napoli è speciale per Sarri. Ma all’inizio non c’è corrispondenza, e per Napoli Sarri non pare essere tanto speciale, anzi. Nulla di grave, per uno che della “non specialità” ne fa un vessillo. La fama di calcio “pane e salame” preoccupa però il tifoso partenopeo, quasi avesse i segnali di una preoccupante involuzione di “caratura”.
Ecco, Sarri a Napoli è partito così, come simpatico tuffo nel calcio degli “altri tempi”: le voci agostane e settembrine dicono di lui come uno “non all’altezza” , uno che ha il “profilo troppo basso”. La società intanto, dopo aver speso parecchio durante la gestione Benitez e complice una mancata qualificazione in Champions League non dà il meglio di sé sul mercato, ma riesce comunque a trattenere tutti i possibili partenti. Sarri si trova dunque una rosa pressoché identica a quella di Benitez con le eccezioni del portiere Reina e del centrocampista Allan, nuovi innesti. Il Napoli singhiozza alla prima perdendo a Sassuolo, e pure alla seconda: la squadra, in vantaggio di due reti in casa con la Sampdoria, si fa rimontare nel secondo tempo. Alla terza arriva un altro pari, il secondo, contro l’amato Empoli. La piazza inizia già a spazientirsi, d’altronde la fiducia non è poi molta, e una bella tappa di montagna attende il nostro scalatore Sarri, ossia quella di valicare con il lavoro gli ostacoli che la sua immagine -non certo patinata- gli offre nel rapporto con una piazza dal palato ormai abituato a presunti o reali grandi nomi.
Tutto ciò magari ignorando che il calcio e i metodi lavorativi di Maurizio Sarri sono per alcuni aspetti la strada più distante che si possa prendere da quel calcio lì, quello etichettato “pane e salame” – e che fastidio, queste etichette- quello del catenaccio e del provincialismo.
Del pane e del salame in Sarri c’è la genuinità e la schiettezza: «noi toscani siamo così. schietti, rudi, ma veri». Gli addetti ai lavori ricorderanno quel «mi stai prendendo per il culo?» con cui rispose a Samuel Eto’o venuto a complimentarsi per il gioco della squadra, al termine di un Empoli-Sampdoria. C’è quella questione umana sempre al primo posto, impostata con il dialogo personale, con il confronto, con idee chiare che non sono convinzioni. Legge Bukowski, John Fante, si interessa di politica. Nessun modulo in testa, nessun credo dogmatico. Lavoro, dieta personalizzata per ciascun giocatore in base a costituzione fisica e ruolo, sintesi di tradizione e di innovazione, materiale raccolto al computer, «ci lavoro fino a tardi, studio video e dati». Prepara ogni giornata di allenamento in maniera diversa, per lui non esistono “allenatori in seconda” ma soltanto collaboratori che condividano un’idea simile di calcio, e con i cui nomi battezza i diversi schemi: «se gli avversari li imparano, cambio i nomi, più che gli schemi», dice. Per lui è importante che sia sempre l’allenatore a condurre gli allenamenti senza alcuna delega, “per avere maggior presa sulla squadra”.
Per lui è fondamentale l’analisi filmata di ogni incontro e il raffronto con la preparazione teorica dello stesso, «da non confondere con l’analisi è la lettura della partita» scrive nella sua tesi presentata al settore tecnico della F.I.G.C. per il Corso Uefa, «che è invece rappresentata dal metodo che usiamo durante la gara per avere un’ idea chiara e precisa dell’evoluzione della partita, in modo da prendere quelle decisioni tattiche che sono chiamate tattica applicata -continua- mentre in fase di preparazione abbiamo usato accorgimenti tattici che sono chiamati tattica di principio. La lettura, a differenza dell’analisi ha obiettivi immediati in quanto tende ad ottenere il massimo risultato possibile dalla partita stessa».
Una tesi nata dall’esigenza secondo cui «in un calcio sempre più preparato dal punto di vista tattico e fisico sia di fondamentale importanza andare a predisporre tutte le singole partite nei minimi dettagli».
Dettagli e chiarezza, anche per spiegare impronta tattica: «Mi piaceva la difesa a 3, poi ho capito che era più offensiva quella a 4, che non costringe gli esterni ad arretrare. Chiedo che la palla resti poco all’ interno dello stesso reparto, quindi bisogna verticalizzare il gioco il più possibile oppure scaricare all’ indietro, giocando lateralmente il meno possibile. Gli esterni devono attaccare gli spazi, mentre dietro al centravanti deve esserci un giocatore che faccia sia il trequartista che la seconda punta: in questo ruolo ho spesso dovuto “inventare” giocatori, come Baiano alla Sangiovannese e come Bonfiglio a Pescara».
Precisione, dunque. Uomo di campo, uomo di testa. Calcio schietto ma intelligente. Attorno al suo gruppo si respira freschezza. Scaramantico, a Pescara spruzzava spray nero sugli scarpini colorati dei suoi giocatori, un colore nero sempre presente nella sua carriera, con abiti, cravatte e accessori vari. Gli piace essere considerato un lavoratore, non ama il termine fatica: «faticoso è alzarsi alle 6 per andare in fabbrica. Qui serve solo armonia di movimenti e di tempi». In passato per questa faccenda del nero lo chiamavano Diabolik, alcuni invece lo paragonavano alla star francese Jean Reno: «dicono che sembro uno che porta male? -aveva risposto alla Gazzetta dello Sport, anni fa, in occasione di un incontro tra tecnici a Coverciano- L’importante è che porti male agli allenatori che devo affrontare, così li batto». Tempi andati, ora per molti partenopei Sarri è il boss Pietro Savastano della plurichiacchierata serie tv Gomorra, interpretato dall’attore -napoletano, inutile aggiungerlo- Fortunato Cerlino. Anzi, fino a pochi giorni fa questo era l’unico motivo per cui venisse menzionato, prima che il Napoli nel giro di sei partite collezionasse 6 vittorie con 18 reti fatte e solo una subita, battendo Lazio, Juventus e Milan a San Siro, quest’ultima con risultato storico (0-4).
Ora, soltanto ora, Sarri sembra potersi giocare le sue carte, ora, soltanto ora la ‘sua’ squadra sembra passare anche alle orecchie più dure un suono di benessere e di divertimento, prima di ogni cosa. Allan Marques Loureiro, conosciuto semplicemente come Allan, brasiliano venuto dall’Udinese in estate, in Friuli aveva messo a segno un gol in tre stagioni: con Sarri siamo a quota 3 in campionato dopo appena 7 gare; Marek Hamsik, simbolo della squadra, dopo due anni di prestazioni opache sembra abbia ritrovato il ruolo giusto e l’entusiasmo, come quel Lorenzo Insigne spesso finito al centro delle critiche a causa della scarsa vena realizzativa e quest’anno autentico trascinatore a suon di gol. Poi Jorginho, centrocampista ormai sulla via dello sgabuzzino che si è riavuto sfoderando impensabile verve. Insomma, la realtà ormai tangibile è il divertimento che questa squadra inizia ad avere nel giocare a calcio, quasi fosse consapevolezza spirituale data dal messaggio di un uomo in tuta che “avrebbe fatto questo dopo il lavoro e gratis” e che invece si ritrova a farlo da professionista al cospetto di professionisti ai più alti livelli, i famosi milionari del pallone, che altro non sono se non ex calciatori amatoriali con le stesse necessità di coinvolgimento emotivo e umano rispetto a un operaio, a uno studente fuori corso, o a un impiegato di banca.
Anche e soprattutto in virtù di questo Sarri non è più simpatica macchietta di provincia su cui confezionare servizi sorridenti sulle piccole isole felici, ormai Sarri inizia ad essere quello che ti riporta all’essenza come un agricoltore ti riporta alla terra. Bontà, umanità, abbattimento di forma e immagine che tutto in questo mondo pare divorarsi, ma anche competenza, dialogo, confronto, convinzione e adattabilità. I numeri aiutano, ma non schiavizzano un progetto: nessuna dipendenza da ideologie tattiche, per prima cosa comprensione, consapevolezza e divertimento da tradurre in campo. Anche in serie A, dove ci arrivi «per meriti e grazie alle società che credono in te. Nelle categorie inferiori conosco tanti che potrebbero stare al posto mio, se godessero di attenzione mediatica». E anche adesso che l’attenzione mediatica c’è, si continua a far spallucce e lavorare, tra computer, tute, caffettiere in campo e parole, e poi «con la personalità, con la personalità. La facilità di parola. E la conoscenza, che rende credibile le prime due». Come se fossimo su un campo di periferia, anche se ci chiamiamo Napoli, perché si sa, da queste parti le etichette non piacciono.
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