Calcio
Maradona, il D10s dei napoletani
Il 30 giugno del 1984, a Napoli arrivò babbo natale. Ogni napoletano si ricorda cosa stava facendo, quanti anni aveva, dove si trovava, quel giorno. Fu come vivere in un sogno, che diventerà poi una rivoluzione. La bomba, dopo un susseguirsi di voci, notizie vere e false, esplose, arrivava il condottiero, arrivava il liberatore, arrivava Diego Armando Maradona.
Già quando solo si immaginava, che ciò potesse accadere, in un avvio di estate caldo, quelle estati che si vivevano diversamente, leggendo il “Corriere dello Sport”, “Il Mattino” o il “Roma”, per scorgere in qualche riga, le speranze del calcio azzurro, della vita di Napoli, in quei giorni le discussioni si animavano, gli occhi brillavano.
Già quando era solo un’ipotesi, tutti dicevano: Maradona è un figlio di Napoli e a Napoli deve tornare. Già si sentiva, alla pronuncia di quel nome, del giocatore più forte del mondo, che qualcosa di magico potesse avvenire.
Del resto, Ferlaino, ci aveva fatto vedere di cos’era capace, con Savoldi, mister due miliardi, con Kroll, che aveva portato a Napoli il calcio olandese, adesso un argentino, che viene da un club di football lontano anni luce da Napoli, arriva dal Barcellona. Ferlaino, bisogna dirlo, fu un mago. Dalle sue mani per incanto, fece apparire una colomba, che poi si rivelò una fenice.
Di paragoni, la vita di Diego Armando Maradona è piena, uno su tutti, Pelè. Ma, dopo tutto quello che è accaduto e che ancora accade, Maradona può essere paragonato solo ad un essere mitologico. Come la fenice, ancora oggi, di nuovo, risorge dalle ceneri, e tutti aspettano le sue gesta, tutti ancora vogliono rivederlo toccare il pallone. Quel pallone che non è un oggetto, estraneo al suo corpo, ma una parte di lui, che lui risveglia, quando vuole e come vuole. I napoletani hanno bisogno di santi e di miti. Di santi ne abbiamo tanti, forse anche troppi, a cui chiediamo assistenza. Di miti, no, tranne D10s.
La legge dello sport, dello stadio, del pubblico, con l’arrivo di Maradona, fu invertita. La gente andava allo stadio non per trascinare la squadra alla vittoria, ma per essere trascinata dalle gesta, quasi eroiche del pibe de oro. Accadde una cosa ancora più meravigliosa. Il calcio, e Maradona era l’essenza del calcio, fece rinascere una città.
Un popolo depresso, che veniva dal terremoto. Una città i cui tassi di occupazione erano bassissimi, dove la camorra, in tre anni, dall 1981 al 1983, aveva affrontato una vera guerra, lasciando a terra poco meno di 1000 morti, uno al giorno. A Napoli non era arrivato un calciatore, era arrivata una speranza. La speranza di poter avere un affrancamento da quelle pene eterne.
Cosa ci vuole, solo una vittoria si desiderava. Lui portò il Napoli a vincere su tutto. Un argentino che divenne subito un napoletano. Appena arrivato, il 5 luglio 1984, nel giro di campo al San Paolo, capì subito che quello non era un pubblico, era amore puro. I napoletani lo avrebbero amato in modo assoluto, dal primo momento che avevano sentito il suo nome, dal primo momento che l’avevano visto palleggiare. Si ritrovò, come quei condottieri, capitano di uno sparuto esercito, ad affrontare terribili guerrieri e sconfiggerli, uno alla volta, fino a vincere la sua guerra.
Il calcio espresse non solo l’emozione del gioco, ma divenne una rivoluzione che investì ogni napoletano. Apparve il sorriso sulle labbra dei napoletani. La gioia. Le difficoltà della vita di tutti i giorni, sparirono. Le vittorie, la medicina di tutti i mali. Fu il momento storico, in cui i napoletani, perdendo la loro filosofia del campare alla giornata, pensavano al futuro, facevano programmi, vedevano avanti, vedevano oltre.
Maradona fece partire a razzo la macchina dell’inventiva. Il “business” che quel nome, quelle gesta, quel modo di vivere del campione, si poteva tradurre in: mutandine, pantofole, scarpe, magliette, pupazzi, parrucche, giubbotti, calzini, giocattoli, fuochi d’artificio, dolci e perfino pizze. Insomma, bastava scrivere “Diego” su qualsiasi cosa e quella cosa trovava subito un mercato. Si è visto di tutto ed ancora oggi si vede di tutto. Anche sui corpi delle persone. Ogni tanto, a mare, scopro un volto, una scritta, uno scudetto, tatuato sulla pelle di questa città.
Il “pibe” non fece nessuna azione per cautelare il suo copyright. Anzi, amava che la gente “vivesse” sul suo nome. Come definirlo un uomo del genere? Forse alla pari di un santo? Traspariva, nei suoi ragionamenti, a difesa dei napoletani, quella responsabilità sociale, che nessun uomo politico aveva mai mostrato prima. Fu forse grazie a queste sue gesta, che i napoletani, in quel momento, si sentirono più argentini che italiani.
Oggi, quella maglia, quel numero, il “10”, fa paura. Non è più nemmeno un numero. E’ un simbolo. Ogni napoletano, contiene una parte di Maradona, anche chi non l’ha mai conosciuto. Un nome che evoca emozioni, gloria, amore, insomma la vita.
Alla fine, Diego, non è mai andato via da questa città. E’ sparito, come in una favola. Molti, anche con timore però devo dire, lo paragonano ad un santo. Al nostro santo, San Gennaro. Il santo del sangue che si scioglie.
Anche il D10S: Cu na fint’, scioglie o’ sang’ rint’ e vven’!, e poi, il miracolo vero l’abbiamo visto tutti…O’ SCUDETT’.
Si, ci sono pure le cose negative, ma a Napoli, la saggezza popolare aiuta. Chi è che non ha mai fatto sbagli? Chi è senza errore? Chi senza difetti? Noi lo ameremo per sempre. Diego Armando Maradona, el pibe de oro.
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