Governo

La Napoli ribelle? È la vera capitale italiana del liberismo

29 Ottobre 2017

Pian piano che la mia permanenza a Napoli aumentava, e da parentesi lavorativa si trasformava un nuovo, inaspettato radicamento dopo dieci anni di assenza, il proposito di astenermi da giudizi faciloni stava franando ogni giorno di più. La cosa buffa era vedere con chi me la prendevo: non più la politica collusa con le mafie, bensì l’ennesima friggitoria con il menù multi-lingua che apriva in centro; non più le istituzioni, che durante la mia adolescenza erano incapaci di attrarre un barlume di vita in strada dopo le venti, bensì il nugolo rumoroso di svedesi impegnati in un botellón; non la borghesia locale, da sempre odiata perché restia a qualunque innovazione, ma i sudcoreani, che supplicavano di essere portati a Scampia per un Gomorra-tour. Eppure i miei amici ed io avevamo passato gli anni del liceo a sognare una città davvero aperta al mondo, invasa dai turisti e liberata dagli stereotipi più impaurenti. Ma che ti prende quando molti commentatori dicono che stai vivendo finalmente una nuova età dell’oro, che la tua è una “città ribelle”, un esperimento socialista addirittura, una vera anomalia? Capita che ti venga voglia di rimettere un po’ in ordine le idee, anche a costo di rischiare un brusco risveglio.

Napoli – diciamolo subito – è una città dove ancora è possibile avvistare supplenti di filosofia che vivono al centro, vecchiette che vendono pizze fritte a un euro a pochi passi dai rivenditori Apple, e figli di proletari che riempiono spiagge pubbliche senza timore di essere perquisiti ogni due minuti: nel 2017, risvegliarsi da queste parti non è la cosa più traumatica che ti possa capitare. Di sicuro non lo è per me: in fondo, sono il prodotto più tipico dei baby boomers all’ombra del Vesuvio: padre medico e madre insegnante, casetta di proprietà costruita dai fascisti ed ereditata dai nonni, e a differenza dei miei coetanei tedeschi o americani ancora un gruppetto di compagni d’infanzia sui quali poter fare affidamento, per non parlare soltanto di lavoro o di omogenizzati. La verità è che con l’età adulta è sopraggiunto anche l’oblio, e abbiamo finito col rimuovere i bei tempi andati: il cellulare nascosto nelle mutande, la sera, per evitare scippi; i Decumani al buio e intasati di monnezza come in un romanzo neogotico, mentre in giro si vedevano meno studentesse straniere che nella Sicilia di Pietro Germi. E, siamo onesti, è difficile apprezzare appieno il Fizcarraldo di Herzog senza conoscere l’epopea che l’ha partorito.

Bagni Elena, Posillipo (da Flickr)

La rivincita dei “rentier”

Che negli ultimi anni si respiri un’aria diversa, in città, è innegabile. Il punto è che per un attimo ho creduto fosse il risultato di una robusta azione progressista. Invece, a volerci guadare dentro, era una furba politica del laissez-faire. Prendiamo ad esempio il più clamoroso filone aurifero dell’economia urbana meridionale di questi anni: i B&B spacciati per “case vacanze”, che stanno spuntando ovunque dove funghi: totalmente deregolamentati, grazie all’azione congiunta di vigili urbani e geometri complici e un Comune disperatamente alla ricerca di turisti, essi beneficiano in primis una variegata gamma di capitalisti “redditieri”: anziani proprietari di “bassi” appena ristrutturati; famiglie di professionisti che devono sovvenzionare figli all’estero; la giovane borghesia dalla precaria situazione lavorativa, stufa di dividere casa studenti sempre più alcolizzati.

L’invasione di turisti è davvero merito dell’attuale sindaco, o piuttosto è frutto della combinazione tra circostanze fortunate (o sventurate, a seconda dei punti di vista)? Trasporti low-cost sempre più diffusi, una crisi dei rifiuti messa sotto il tappeto mentre la raccolta differenziata non decolla, e il fatto che gli attacchi terroristici per ora non toccano l’Italia ma Parigi, Istanbul, Barcellona. Secondo l’attivista Alfonso de Vito, impegnato da vent’anni nella lotta per gli affitti popolari, Napoli assume sempre più l’aspetto di un parco giochi per gli Erasmus: “Chi cerca di raccogliere qualche briciola dalla situazione non ha la percezione che nella deregulation la forbice della ricchezza sociale tende inesorabilmente ad allargarsi: chi ha i capitali un po’ alla volta occupa gran parte dello spazio e delle risorse”.

Da qui a parlare di gentrification, però, ce ne vuole: mancano quei segnali tipici del fenomeno che si possono studiare a San Francisco o a Brooklyn, come i grossi investimenti pubblici o privati che portano a demolizioni brutali, all’apertura di supermercati 24h24 e allo sradicamento di intere minoranze etniche; qui si assiste piuttosto all’apertura del piccolo ristorante vegano messo su da ex-dottorandi. Del resto Napoli, frammentata in condomini signorili che si mescolano (ben recintati) a topaie insanabili, è una città con almeno il 50% di disoccupazione giovanile, dove gli impieghi nel terziario altamente qualificato sono troppo pochi per attirare la tipica new middle class dell’Occidente sviluppato, cioè creativi e impiegati con poco patrimonio e salari alti. Qui si registra semmai il contrario: l’arrivo, in alcune aree del centro storico, di immigrati poveri e di trenta-quarantenni che si arrangiano tra lavoretti mal pagati e modesti consumi culturali. Possiamo parlare allora – se nessuno si offende – di un impacciato reimborghesimento, di un’imprenditoria della disperazione.

Preparazione della sfilata di D&G (da Flickr)

Su tutto questo si staglia il genio di De Magistris: eletto per la prima volta nel 2011 come forza anti-sistema, sulle rovine del centro-sinistra bassoliniano e di un centro-destra allo sbando, è stato capace di nascondere i suoi limiti e il suo conformismo dietro la voglia di rivalsa della Napoli colta, giovane e di sinistra, stanca di perdere sempre. “L’impressione per chi è tornato a Napoli dopo dieci anni è di aver trovato una città certamente povera… ma in cui la partecipazione alla vita pubblica non è più condizionata dall’appartenenza o dalla prossimità a un circuito elitario che ne deteneva il comando”, scrive il giornalista Massimiliano Gallo. Ma ben presto l’azione riformatrice si è arenata su due grandi ostacoli: l’isolamento politico e il catastrofico buco di bilancio comunale. Le suggestioni più demagogiche o innovatrici, le piste ciclabili, una moneta locale che avrebbe scalzato quella ufficiale (il “Napo”), cooperative per venire incontro ai parcheggiatori abusivi, nientemeno che un reddito di cittadinanza da 600 euro al mese, sono morte in culla una dopo l’altra, per l’ovvia indisponibilità di mezzi o per essersi rivelate sparate troppo grosse.

Se già il Comune si è rivelato incapace di indirizzare una fase economica difficile, ancora più pietosa è stata l’illusione, da parte di alcuni movimenti, di poter incidere sulla fase decisionale. Piattaforme come Massa Critica – che ambivano a realizzare quel famoso “potere del popolo” tanto giusto sulla carta quanto vago nei contorni – si sono risolte in un nulla di fatto; lo scontro frontale con Matteo Renzi circa la riqualificazione di Bagnoli – puntellato da proteste sobillate dal sindaco, le promesse di un’immensa spiaggia pubblica e un impatto limitatissimo dei privati – è stato un tentativo maldestro del primo cittadino di accumulare capitale politico in vista delle amministrative del 2017: una volta accertato il flop delle liste “DeMa” alle urne, si è tornati alla negoziazione sottobanco, e a ciò che gli intermediari più smaliziati presagivano da mesi, ovvero una resa quasi incondizionata al governo: “Tutto meno che un modello di democrazia partecipativa”, per usare le parole di Massimo Di Dato, uno degli attivisti bagnolesi.

Nel giugno del 2016 De Magistris veniva confermato, in una cornice di astensione record, soprattutto grazie ai quartieri collinari (quelli più borghesi) e alla città vecchia graziata dal turismo, mentre le periferie abbandonate votavano compatte per la destra. Un anno e mezzo più tardi, le persone che animano gli spazi occupati costellanti il centro storico sono sempre più perplesse: il bisogno di fare cassa del Comune getta un’ombra sul futuro, l’alleanza con il sindaco non è più solida come una volta, e la famosa delibera di garanzia sui “beni comuni”, che ha suscitato entusiasmi in mezza Italia, in realtà non è stata mai votata in Consiglio; roba che, in caso di cambio di maggioranza, con il bisogno impellente di monetizzare, rischia di finire carta straccia. Eppure questi spazi si sobbarcano con commovente dedizione attività di welfare che sarebbero compito dello Stato: sportelli di assistenza legale per i lavoratori in nero, doposcuola per immigrati, addirittura ambulatori gratuiti equipaggiati con donazioni dei privati. Tutto bellissimo. Ma non non è in fondo un’attività missionaria che si ritrova anche nel Sudamerica più devastato dalla deregulation e nelle suburre di Detroit o del Bronx?

E infatti, paradossalmente ma non troppo, a Napoli è più semplice organizzare un incontro letterario di respiro europeo in un centro sociale (dove non si deve sbigliettare o battere scontrini) piuttosto che in una delle tante biblioteche pubbliche in disfacimento, con una borghesia che non vuole o non può spendere, e una politica culturale cittadina passata dalle installazioni di Kounelllis alla metà dei Novanta alle stelle comete al neon e ai corni giganti sul lungomare. Andrea Minuz sosteneva, con non poca malizia, che in fondo un circolo Arci del Pigneto e i liberisti come lui condividono la stessa battaglia: contro i lacci e i laccioli della burocrazia italiana; omettendo, certo, che da una parte si fa volontariato e mutualismo, e dall’altra profitto e self-promotion. Ma capovolgendo il discorso, da una prospettiva “di sinistra”, e ricordandomi di alcune scene viste a Cuba, c’è da ricordarsi che quando lo Stato è inefficiente ecco che spuntano le correnti mercantili sotterranee: economie in nero a volte vitali, necessarie, a volte furfanti, ma comunque ben lontane dal concetto stesso di socialismo, che è tutela reciproca e non arte di arrangiarsi.

Un modello di controllo invisibile

Polizia nelle  vie del turismo (da Flickr)

Se d’internazionalismo invece si deve parlare, forse è il caso di ricordare il comune destino che unisce molte delle grandi metropoli mediterranee, alle prese con disavanzi economici tragici che, per un crudele paradosso, sono proprio ciò che ne preserva il carattere “autentico”. Escludendole, piaccia o no, dai grandi investimenti di capitale che stanno trasformando Londra o New York in immense Dubai fluviali, dove l’1% di miliardari contribuisce al 40% del gettito fiscale (e a buona parte del mecenatismo culturale, spesso di dubbio gusto). È una dinamica ricattatoria che va ben al di là dei poteri di un sindaco, che in molti casi è costretto soltanto a metterci una firma: quando, l’anno scorso, Dolce&Gabbana ha scelto di tenere una sfilata a Napoli blindando il centro storico, e più recentemente ha girato uno spot milionario a base di spaghetti, mandolini e vaiasse danzanti, la sinistra radicale comprensibilmente s’è inferocita.

Ma non si capisce a quale modello di sviluppo dovrebbe aspirare una città da venticinque anni in crisi, ora in pieno revival identitario da due soldi, sì, ma con risorse limitatissime e zero visione di lungo periodo, con un sindaco che da un lato vuole allearsi con una ricchissima Barcellona che può permettersi di limitare Airbnb, e dall’altro con la guerriglia curda del Rojava. A dispetto dello slogan Essere napoletani è meraviglioso, nella Milano “expottimista” c’è un bonus di 400 euro al mese per chi si mette in casa un rifugiato, mentre nella Napoli solidale sono stati messi in vendita asset pubblici quali stazioni delle funicolari, la rete del gas e circoli ricreativi, mentre le tasse per famiglie e le imprese sono aumentate, e la spesa sociale del Comune è praticamente azzerata. La città si trova così stretta in quel tipo di ricatto che gli economisti definiscono “il male olandese”: o protegge la sua unicità, la sua anarchia, a costo di andare incontro ad una crisi Venezuela-style, o si lascia trasformare in una di quelle smart city stile Disneyland, dove tutti gli elementi di disturbo sono ridotti al silenzio.

Ex Ospedale Psichiatrico di Sant’Eframo, ora occupato (da Flickr)

È forse da questo punto di vista, quello della sicurezza, che devo riconoscere il capolavoro della retorica napoletana: riuscire a passare per città alleata con gli ultimi quando, nella pratica, qui si sono confermate, se non rafforzate, le pratiche più tipiche della “tolleranza zero”. Il filmmaker Luca Manunza ha fatto ricerche strepitose sui modi in cui la Polizia Municipale, sempre più tendente ad essere un corpo repressivo nelle città italiane, a Napoli è diventata un caso di studio per la spietatezza, per il razzismo fuori controllo. Tutta concentrata nei due, tre quartieri dello struscio, con una rete televisiva (la caudillesca ItaliamiaTV) che fino a qualche anno fa era l’unica autorizzata a farle domande, la Municipale qui si occupa di sequestrare le merci, anche non contraffatte, agli ambulanti, di perquisire senza preavviso degli appartamenti dei migranti, di malmenare persone di colore beccate senza biglietto e pure chi decide di documentare tutto. Questa estate, poi, sono state fatte sgomberare centinaia di famiglie rom nel quartiere di Ponticelli, nonché i senegalesi che tenevano uno storico mercatino nei pressi della stazione Centrale, senza che il Comune si preoccupasse di trovare un’alternativa. E se per superare un varco ZTL basta chiedere ai vigili del garage più vicino (loro non possono mettersi contro le attività commerciali) nei cantieri e nei negozi malavitosi i controlli latitano, come sempre.

Infine, si può commentare il ridicolo sportello online “Difendi la città”, fortemente voluto da una consigliera del gruppo DeMa? Una pagina, a volerla prendere sul serio, che inviterebbe alla delazione, senza se e senza ma, contro i nemici di Napoli, ma che non specifica nemmeno quali sarebbero i limiti consentiti allo sfottò. Davvero molto progressista. Ad ogni operazione di polizia, l’entourage di De Magistris scagiona il sindaco con la solita, cantilenante bugia: “non sa mai nulla”.  Il primo cittadino, che esprime solidarietà politica ai No Tav e ad Ocalan, per anni ha tacciato di inciviltà gli operatori sociali senza stipendio, i senzacasa e i disoccupati in presidio sotto le porte di Palazzo San Giacomo, mentre lasciava un vero sceriffo come il comandante Luigi Sementa occuparsi del lavoro sporco: la disinfestazione sociale. A tirare le somme, la verità è che, per una città sull’orlo del dissesto finanziario come Napoli, la priorità è tenere in ordine le poche vetrine fruttuose per l’economia, e le scorribande dei famigerati centauri della Municipale tornano utili allo scopo.

Fotogramma tratto da un video di addestramento della Polizia Municipale di Napoli (da Youtube)

Chi, come me, ha per un po’ creduto alla “rivoluzione arancione”, adesso è costretto a farsi domande più serie. Ci si è riempiti la bocca con citazioni post-strutturaliste per parlare d’altro e di altri contesti, intanto è proprio qui, sotto i nostri occhi, che è andato in scena un allibramento di governo “biopolitico”, attraverso un intreccio ben elaborato di poteri. La città sembra incamminarsi verso un tipo di futuro “al di fuori di ogni programmazione, e fuori tempo massimo rispetto alle grandi città europee, come un bastimento che finalmente si decide a scendere in mare dopo un varo estenuante – scrive Luca Rossomando, direttore di Monitor, forse la rivista d’inchiesta più lucida e onesta in città – verso dove è ancora difficile dire”. Rimasuglio visuale di quest’epoca sono i cortometraggi di Casa Surace o The Jackal, espressione della classe-medio colta sempre più nostalgica, in cui – si legge su Rivista Studio – “l’ironia è triviale e fa solo finta di allontanarsi dallo stereotipo per riaffermarlo, ed è ottusa, antimoderna, facendo leva su delle antitesi che non esistono più nella realtà”.

E se persiste un pregiudizio negativo, odioso, da parte di un certo turismo distopico e in molta stampa “fogliante” (che dà dello straccione a chiunque rifiuti un linguaggio thatcheriano) dall’altro i discorsi di molti compagni di sinistra rasentano l’allucinazione, o la retorica dei gesuiti alla vista di Tenochtitlan: “La rivoluzione Partenopea, popolare e transociale, va disinnescata da chi la teme”, si legge sul sito Identità Insorgenti, nato e divenuto popolarissimo durante l’era demagistriana. “Napoli… si è riscoperta Capitale morale mediterranea e rivendica il rispetto che le compete… Insorgente, brigantessa, peshmerga”. Sarà. Le illusioni collettive, così come le bolle immobiliari, nascono dall’ideologia, e non c’è nulla di male. Ma forse sarebbe il caso di ammettere che l’unico show in atto in questo momento è il canto del cigno della borghesia declassata. Il resto è una polveriera pronta a esplodere.

Nel frattempo grazie, Napoli, per farmi da cuccia e da presepe. Avevo paura della lotta di classe, e tu invece mi proteggi.

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