Napoli
La leggenda di un nome che provoca una morsa al cuore
“C’è qualcosa di affascinante in ciò che la sofferenza morale può fare……..É ancora più insidioso di quello che può fare un malanno fisico, perché non c’è iniezione di morfina, anestesia spinale o radicale intervento chirurgico capace di alleviarla”
Stream of consciousness: il quartiere esulta, si anima sulle note di Napoli di Nino D’angelo, la stessa canzone che animava la città quando vinceva grazie al pibe de oro i suoi numerosi scudetti. Ero a Fuorigrotta da una mia zia quando appresi la notizia che il Napoli aveva acquistato Maradona.
Un volto, quello di Maradona, che si sovrappone a quella della città, una città messa alla prova dal terremoto dell’Irpinia, una città zimbello per quell’Italia un po’ snob che esibiva sullo stadio striscioni recanti la scritta ”Napoletani puzzate”, “Napoletani lavatevi”. Anche Maradona aveva difficoltà a lavarsi nella catapecchia in cui, terzo di sette figli, era costretto ad abitare. Una povertà che ti resta addosso, ti permea anche quando non sei più povero, anche quando hai la possibilità di riscattarti, di dare un tetto, una casa, alla tua famiglia e ai tanti Napoletani che in casa si rinchiudono dinanzi a un televisore per esultare, seguire le gesta miracolose di chi ti regala un sogno di riscatto, e da pezzente e straccione, come ti etichettano, ti fa sentire un re.
Il pibe che riscatta il pueblo, ma è quell’oro che guasta. Se da una parte ti consente di realizzare i tuoi sogni, dall’altra ti rende schiavo di un ingranaggio, una pedina nelle mani di chi ti attornia perché sei una macchina che produce soldi. Il bel mondo ti affascina, ti stordisce col suo luccichio, ti induce a cantarti addosso: “innamorato son perché ho visto Maradona”, come accadeva negli spogliatoi, immagine riflessa, ma distorta di un sistema che ti fagocita, ti metabolizza, per poi espellerti quando quelle luci diventano troppo abbaglianti. E così, caduto nelle mani del clan Giuliano che opera nelle zone centrali della città, padroni indiscussi del quartiere Forcella, il campione perde il controllo, diviene schiavo della cocaina, sente il peso di una notorietà asfissiante, arraffona, può avere ciò che vuole: belle donne, auto lussuose, ma non ha la libertà di scegliere dove e come vivere davvero. La seduzione diviene prigione. Ferlaino il suo carceriere, non importa che il disagio umano esploda con l’uso di sostanze stupefacenti, non importa il perché, importa che sei un prodotto da business. Si è pronti a falsificare controlli antidoping pur di non dare ascolto ad una voce che, dopo aver dato tutto a una città e al Sud intero, ha bisogno di riprendere in mano la sua vita, riappropriandosi delle sue radici.
Maradona, il santo che diviene diavolo quando piazza quel goal contro l’Italia durante il campionato del mondo del 1986.
Da lì la caduta è celere, la stampa, il sistema giudiziario, non sono più disposti a coprire gli eccessi di un campione, la discesa agli inferi di un eroe che era anche e soprattutto un uomo è inesorabile.
Eppure da due giorni si piange quel genio, quell’estro, quella fantasia e capacità di emozionarsi e trasmettere emozioni. Perché che sia di calcio o di vita privata, Maradona ha saputo toccare il cuore di tutti, di chi ne riconosce tardivamente i torti e dell’uomo della strada a cui anche nei momenti difficili ha regalato un sogno: quello di potercela fare a testa alta.
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