Medicina

giuseppe moscati. la medicina del corpo e quella dell’anima

29 Maggio 2020

In questi mesi ho avuto il piacere di riscoprire la professione medica di alcuni miei compagni di liceo insieme con i vecchi compagni di classe. Enzo, Valeria, Uccio, Laura, Nico.

Ciascuno in servizio in prima linea, in vari ospedali italiani, dalla Lombardia, al Veneto, alla Puglia.

Abbiamo seguito da vicino questi amici che ci trasmettevano i disagi e le tensioni legate alla moltiplicazione dei ricoveri, alla gestione delle emergenze, alla sofferenza per il prorompere di un virus che non si avevano tutti i mezzi per debellare in alcuni pazienti.

Ci siamo confrontati via via sulle varie informazioni legate alla prevenzione e alla gestione dei quadri legati all’eventuale infezione, nonché sulle varie notizie che aprivano alla speranza per un virus che si sarebbe potuto contrastare e che si stava contrastando.

Insieme con l’affetto, l’amicizia e la gratitudine per queste persone con le quali abbiamo condiviso un momento importante del nostro percorso, abbiamo apprezzato ancora di più tutti quei loro colleghi che le cronache ci hanno presentato in questi mesi.

Non nascondo che mi è venuta alla mente la figura di Giuseppe Moscati, un medico campano canonizzato da Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987, la cui storia è stata in maniera molto piacevole ed avvincente messa in scena dall’attore Giuseppe Fiorello nel film “L’amore che guarisce”(1).

Consiglio vivamente la visione della fiction, perché, seppur romanzata, la ritengo una ottima interpretazione e una bella possibilità di conoscere questa figura.

Allo stesso modo consiglio una visita al decumano di “Spaccanapoli “ e una passeggiata nel prezioso percorso che ci fa vivere e respirare i vicoli, la storia e l’umanità della città partenopea, una tappa alla chiesa del Gesù Nuovo dove riposano le spoglie del medico napoletano e si conservano i luoghi del suo lavoro e il suo vivo ricordo.

Così come ho fatto nel mio precedente articolo (2), mi piace ricordare alcuni episodi della vita di Giuseppe , per coglierne insieme la grande freschezza ed attualità.

Senz’altro nella fiction quello che colpisce tra gli altri è la scena dell’epilogo, in cui il suo amico ha un dialogo con lui quando il protagonista non era più su questa terra.

Sono andato alla ricerca di una fonte ma non son riuscito a rintracciarla, eppure ricordo trent’anni fa il racconto del mio parroco che aveva letto (bisognerebbe in effetti rintracciare la fonte) un testo che sosteneva che durante il processo per la beatificazione una delle testimonianze più incredibili era stata quella di un postino che si era recato in via Cisterna dell’Olio per fargli firmare la ricevuta di una lettera raccomandata; l’incontro sarebbe misteriosamente avvenuto dopo la scomparsa del medico; se ne conserverebbe (a detta del testo che il parroco mi citò) la data della ricevuta con la firma autografa di Moscati.

Invitando con questo ricordo chi possa a scovarne la fonte che non trovo, passiamo ad altri aspetti, tanto attuali, di questa figura.

La sollecitudine.

Colpisce sempre la trasposizione filmica, ma è storia il fatto che Giuseppe si sia recato con sollecitudine presso l’ospedale di Torre del Greco, dipendenza di quello degli Incurabili di Napoli dove lavorava, per soccorrere e provvedere allo sgombero dello stesso, ormai minacciato di crollo sotto i movimenti legati all’eruzione del Vesuvio nel 1906.

Questo episodio dimostra, appunto, la prontezza d’animo, la temerarietà, lo spirito di iniziativa che non mancano a tanto personale in servizio nelle corsie e che sono elemento prezioso nelle qualità di un medico. Giuseppe colse l’urgenza e l’emergenza e dispose immediatamente l’operazione per poter trarre in salvo personale e pazienti.

Ugual competenza e sollecitudine dimostrò nel fornire le sue indicazioni perché fossero prese le misure necessarie per affrontare un’epidemia di colera abbattutasi a Napoli nel 1911.

La sua dedizione verso i sofferenti.

Il rapporto con gli ammalati era naturalmente fondamentale, ed egli non solo si recava personalmente ai quartieri spagnoli a visitare chi non potesse permetterselo prima di prestare il suo servizio quotidiano come primario agli Ospedali Riuniti ma continuava poi ad accoglierli senza sosta nel suo studio presso la sua abitazione, non facendosi pagare ma anzi pagando lui stesso le medicine per chi era impossibilitato.

La sua “cura” non si fermava all’aspetto medico e fisico, andava oltre, trasmettendo un’attenzione alle persone e alla loro realtà interiore.

A questo lo portava in maniera spontanea la sua fede e la sua spiritualità.

Altra grande testimonianza fu quella del suo rapporto con gli studenti. La sua docenza universitaria decennale di Chimica fisiologica lo vide accostare il lavoro in reparto con la passione per l’insegnamento, che egli trasmetteva ai suoi studenti contagiosamente.

Nonostante le ore impiegate nella sua “missione” che gli impiegavano quasi l’intera giornata, non smise mai di dedicarsi allo studio e pubblicò varie opere di studi medici ritenute nella prima metà del secolo scorso pubblicazioni di grande spessore ed originalità dagli studiosi del settore.

Questa sua fondazione scientifica, questo suo rigore professionale, questa sua continua ricerca di approfondimento negli studi settoriali ai quali si dedicava, dimostrano un ancoraggio coerente e competente alla scienza che si confronta e si lega allo stesso tempo con il suo essere un credente. Egli riconosceva nella professione vissuta con tale dedizione solo uno degli aspetti legati al soccorso dell’uomo sofferente. Ben oltre e insieme alla cura dei corpi era necessario riconoscere ed adoperarsi per l’accompagnamento delle sofferenze dell’anima degli stessi infermi (3).

Qui dunque, potremmo dire, scienza e fede non si scontrano ma si confrontano e si incontrano nella più rigorosa ricerca della prima e nella esaltazione della stessa colmata dall’attenzione integrale verso l’uomo sofferente, esigita dalla seconda, verso i suoi bisogni fisici, psichici e spirituali.

Giuseppe fu ben presto elevato all’appellativo di “Medico dei poveri”. Ed essi per primi lo piansero, quando persero, ancora giovane, stroncato da un infarto a soli 46 anni, il 12 aprile 1927, il loro benefattore, il loro “santo”.

Ancora oggi, entrando nella Chiesa del Gesù Nuovo a Napoli che ne conserva le spoglie mortali sotto l’altare laterale a lui dedicato, la gente è accolta da una statua di bronzo sorridente con camice e stetofonendoscopio al collo e con la mano destra aperta in segno di saluto e accoglienza. Quella mano è scolorita dal segno delle tante mani che si sono posate sul bronzo per un saluto, una supplica, un ringraziamento.

Un segno di gratitudine che il prof. Giuseppe Moscati lascia nel cuore, anche a chi solo si sofferma innanzi a un bronzo che muto riesce a trasmettere parole di fede (4).

(1) https://www.raiplay.it/video/2017/02/Giuseppe-Moscati—E1-392d61df-52a5-4fff-a6c2-a3c6d4bcfd0c.html

(2) https://www.glistatigenerali.com/qualita-della-vita_salute-e-benessere/francesco-dassisi-fratello-nostro-covid-19/

(3) Molto preziosa è la lettura della SALVIFICI DOLORIS, lettera apostolica di Giovanni Paolo II sul senso cristiano della sofferenza umana http://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_letters/1984/documents/hf_jp-ii_apl_11021984_salvifici-doloris.html

(4) Cito qui, tra le tante biografie, quella presente sinteticamente sul sito del Vaticano https://www.vatican.va/news_services/liturgy/saints/ns_lit_doc_19871025_moscati_it.html

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