Napoli

Dialogo con Roberto Battinelli, a passeggio nella sua “Napoli Greca”

Raccontare Napoli per me è educare al bello. Nella mia lunga carriera di insegnante ho portato intere generazioni di giovani a passeggio per la città tenendo delle vere e proprie lezioni in cui arte, religione, storia, filosofia, letteratura, mito e tradizioni si intrecciano

17 Marzo 2025

Roberto Battinelli ha conseguito la laurea in lettere (Filologia Moderna)e il Magistero in Scienze Religiose. Presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale ha frequentato la Scuola di alta formazione di arte e teologia conseguendo il titolo di Operatore per la valorizzazione e la pastorale dei beni culturali del Mediterraneo:  “ Valorizzazione della bellezza” nei territori locali e nelle diocesi. Per la stessa Facoltà ha collaborato con il LaDIR ( Laboratorio Didattica Insegnanti di Religione”).

Insegnante di religione dal 1986 e docente di Sacre Scritture in varie Scuole di Formazione per Operatori Pastorali della Diocesi di Napoli. Ha pubblicato studi e ricerche di argomento biblico e inerenti la didattica della religione su riviste e volumi collettivi. Per la casa editrice Rolando ha pubblicato “Introduzione alla lettura della Bibbia e Introduzione allo studio dell’Antico Testamento”. È da sempre cultore di studi storici.

 

Conoscere se stessi e il mondo delle idee tramite il mito, o, in altri termini, giungere al Logos tramite il Mythos: questa l’idea principale che regge la sapienza greca, come ha divinamente illustrato Platone nelle sue opere. Il mito della caverna, il mito di Er, quello dell’auriga e di Eros ci illustrano che in quella che noi chiamiamo “realtà” nulla è certo, tutto è in continuo movimento: la verità si trova al di fuori del fuoco, al di fuori della caverna e della mente stessa, dunque nel mondo delle idee, che Platone chiama “iperuranio”.

Mi rivolgo allo studioso di filosofia, che rapporto c’è tra il mito e la filosofia?

Nella storia del pensiero occidentale il rapporto tra mito e filosofia almeno inizialmente si presenta come un binomio inscindibile anche se con registri narrativi diversi.

Il mito è un racconto simbolico che presenta alcune caratteristiche fondamentali:

è un tentativo di rispondere alle domande fondamentali sull’esistenza dell’uomo: da dove viene l’uomo? Chi è l’umo? A che cosa è destinato? Perché soffre? Qual è il senso della vita?

Il mito non intende fare la cronaca di fatti realmente accaduti, ma è utilizzato nel tentativo di dare una risposta simbolica alle domande esistenziali dell’uomo. Per quanto possa sembrare strano, infatti, il problema della corrispondenza storica tra racconto e realtà è moderno: nessun autore del passato si preoccupava della verità dei fatti. Non che pensassero, come facciamo noi di fronte al mito, a racconti di pura fantasia; semplicemente non si ponevano il problema: erano preoccupati di un’altra verità che riduceva l’importanza di quella ‘fattuale’ della storia.

La risposta è collocata alle origini del mondo, ai primordi dell’esistenza in cui si trovano le cause prime della situazione attuale.Ha a che fare con le divinità e con personaggi eroici. Ed è proprio all’interno dei racconti mitici che inizialmente nascono le prime speculazioni filosofiche che a partire poi dai filosofi naturalisti, nella ricerca della spiegazione razionale del fenomeno naturale, si distaccano sempre più dai miti. In una parola il logos prende il sopravvento sul pathos!

Con ‘La nascita della tragedia’ (1872) Friedrich Nietzsche Il picconatore del pensiero occidentale, la visione razionalista della filosofia viene messa profondamente in discussione e il mito ritorna ad esprimere verità profonde che la ragione non può cogliere completamente.

Negli anni ’50 Horkheimer e Adorno (Scuola di Francoforte) cominciano a pensare a una rilettura del mito. Parlando dell’Odissea dicono che quando Ulisse incontra le Sirene e le supera con lo stratagemma della cera, succede qualcosa di cui noi siamo figli: è nata la razionalità illuminata, nasce l’uomo della ragione, vince l’astuzia, vince la τέχνη, il sapere, il fare e chi perde? Perde la poesia, perde il canto, perdono le Sirene: perde il mito!

L’Occidente sposa la causa di Ulisse, dimentica le Sirene, la seduzione, il canto e si inaridisce inseguendo la sua affermazione con gli strumenti e la materia dimenticando che c’è una parte dell’uomo che ha bisogno di tantissima poesia.

Possiamo essere i più ricchi del mondo ma se siamo soli e senza parola non c’è rimedio.

Sarà solo con Martin Heidegger in “Was heißt Denken?” (Che cos’è pensare?) che mito e filosofia ritornano a dialogare: il mito diventa nuovamente il punto di partenza della speculazione filosofica.

Pertanto cara Titti: «Ritorniamo ad ascoltare le Sirene!»

 

2 Quale verità bisognerebbe restituire ad una città il cui storytelling non riesce ad archiviare i soliti aneddoti ormai triti e ritriti che fanno riferimento a tutta una serie di stereotipi tra cui il mai sopito orgoglio partenopeo?

Diceva Gramsci: «La complessità è il luogo della storia!». Parlare di verità da restituire a Napoli non è facile come non è facile parlare di Napoli e non cadere nei soliti stereotipi: la camorra, O paese d’ ‘o sole, la pizza, il caos cittadino e chi ne ha più ne metta. Ma sull’orgoglio partenopeo come stereotipo sopito, avrei qualche riserva perché lo vedo come una risorsa di resilienza e identità di una città che cerca, nonostante le condizioni sociali ed economiche di svantaggio rispetto ad altre città di riappropriarsi della sua identità attraverso l’imprenditoria giovanile, le associazioni culturali, l’arte, la musica e quant’altro. Un esempio virtuoso è l’esperienza dei giovani del Rione Sanità che sotto la guida e la visione profetica di don Antonio Loffredo si sono consorziati in cooperativa, i giovani de La Paranza e hanno recuperato alcuni siti di interesse culturale come le Catacombe di San Gennaro, il Cimitero delle Fontanelle, le Catacombe di San Gaudioso e altro ancora, ridonando alla città circa 13.500 m2 di patrimonio storico-artistico con 56 persone impegnate con contratto a tempo indeterminato e con oltre 200.700 presenze di visitatori in un anno e mi riferisco alle sole Catacombe di San Gennaro.

Inoltre, sono stati avviati percorsi formativi e processi di inserimento lavorativo, di scambio e di networking fra persone, enti ed associazioni. La cosa straordinaria che il modello di gestione delle Catacombe è stato pensato per essere replicabile in altri siti storico-artistici, facendo così “scuola” in tutta Europa.

Vedi Titti, questo a mio avviso, è l’orgoglio partenopeo non assopito e di cui andare fieri.

 

 

3 Tra le canzoni più iconiche di Pino Daniele c’è “Na tazzulell ‘e cafè”, una denuncia verso la politica che amministra la città così lontana dalla gente quanto vicina ai propri interessi. Pensavo a Francesco Rosi che in “Le mani sulla città” denuncia la speculazione edilizia nell’epoca del laurismo, e a Ermanno Rea che in “Mistero Napoletano” tratta, tra l’altro, di questo tema.  Nella prefazione del tuo libro è citata “Napule È”. Napoli è una città che vive sospesa tra bellezza e contraddizione. Cosa ne pensi? Sei d’accordo con l’immagine di una città cresciuta male e troppo rapidamente, incapace di intrattenere un rapporto compiuto con la modernità, a differenza di altre metropoli occidentali come New York, Parigi o Berlino?

 

Ti rispondo di pancia!

Si, Napoli è la città dei contrasti e di forti emozioni dove le difficoltà strutturali e sociali coabitano con il centro storico più grande d’Italia, un museo a cielo aperto dove abbondano arte, storia e cultura. Tuttavia l’esaltazione ottimistica della città non può renderci ciechi alla piaga dell’abusivismo edilizio, al difficile controllo della gestione del territorio, alla forbice economica che crea disuguaglianze sociali sempre più nette che a volte la fa sembrare come dici tu sospesa.

Mi sento a disagio paragonare Napoli alle grandi metropoli occidentali come New York, Parigi o Berlino, perché come queste, Napoli non ha potuto beneficiare di una politica di rinnovamento urbanistico e sociale che l’ha proiettata in una modernità più ‘composta’. C’è da dire però che queste città non vantano come Napoli, almeno in riferimento centro storico, una storia antichissima (V-VI a.C.) che si sviluppa non solo in orizzontale ma anche in verticale.

Se ci capita ad esempio di visitare la Basilica di San Lorenzo Maggiore, nel caos di San Gregorio Armeno, la via dei pastori, in un solo posto troviamo una stratificazione millenaria, una galleria d’arte che ‘a ritroso nel tempo’ parte dall’enigmatica controfacciata del Sanfelice (1742), per poi continuare tra barocco, rinascimento, medioevo (architettura gotico-francese e gotico-italiano) e arte paleocristiana.

Nel chiostro poi, scendendo una semplice scala con un dislivello di pochi metri attraversiamo una sorta di stargate che ci catapulta nella Napoli greco-romana. Ecco la straordinarietà: passeggiando in orizzontale e in verticale diventiamo viaggiatori del tempo.

Forse è proprio questa la bellezza della nostra città: luogo irripetibile da un lato e contraddittorio dall’atro perché questa sua tensione fra tradizione e modernità, tra dionisiaco e apollineo che in alcuni casi diventa un impedimento al cambiamento.

 

4 “Parthenope”, di Paolo Sorrentino, analizza il rapporto complesso e stratificato tra la città di Napoli e il mare. Da un lato esso è fonte di vita, evocata proprio dal mito di Partenope-  e dall’omonima protagonista del film – dall’altro lato è associato alla morte, esemplificata nel suicidio di Raimondo, il fratello della protagonista. In quasi tutte le testimonianze del mito che riguardano le Sirene un elemento comune riguarda la morte.

 

Platone nella Repubblica, all’interno della dottrina della metempsicosi, associa alla melodia degli strumenti delle Sirene un ruolo sacro: addolcivano dalla separazione le anime erranti dalla vita terrena, suscitando la memoria, e la nostalgia dei cieli. Negli antichi miti le Sirene, lette in chiave escatologica, vennero viste anche come divinità psicopompe, accompagnavano cioè le anime dei morti nell’oltretomba cantando per i beati nelle Isole Fortunate o Isole dei Beati. Per questo motivo le troviamo rappresentate spesso su sarcofagi e urne funerarie con in braccio una figura umana minuscola raffigurante l’anima del defunto.

Nella loro duplicità, le Sirene in quanto donne-uccello o donne-pesce, sono creature di passaggio che mettono in relazione mondi diversi: vita e morte, mondo umano e mondo animale, cultura e natura, mondo terrestre e mondo altro, memoria e oblìo, terra, mare e cielo.

L’acqua è l’elemento che unisce tutti questi argomenti tra loro: sapere e morte, ma è anche il tramite per l’aldilà, sia che si vada verso una nuova vita e quindi parliamo di una rinascita iniziatica, sia che si vada verso la morte definitiva o iniziatica.

Se il chicco di grano caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto (Gv 12,24)

 

5 Ritorno al mito, che è il racconto delle origini, una narrazione sacra che trascende il tempo e la storia per connettere l’uomo e la dimensione del sacro. Cito, “Il mito è il linguaggio sacro per eccellenza”, riprendi il pensiero di Vito Mancuso. Ci racconti?

Il mito non è una narrazione irreale, fantastica o anacronistica ma è un racconto attraverso il quale l’uomo cerca di comunicare l’ineffabile, ciò che ha percepito come il totalmente Altro così come affermano studiosi del calibro come Rudolf Otto e Mircea Eliade.

Nel linguaggio sacro quindi il mito occupa un ruolo centrale e fondamentale: è una forma privilegiata di espressione della realtà divina che non può essere espressa attraverso la logica razionale o il linguaggio ordinario.

Per Mancuso spazio e tempo sono trascesi dal mito che si sgancia dalla storia ma allo stesso tempo si connette con la conoscenza più profonda dell’animo umano come la speranza, il dolore, la morte e il senso della vita.

 

6 Secondo il mito biblico cristiano della creazione, la nostra esistenza terrena sarebbe dovuta alla trasgressione. “Addentare il frutto della conoscenza significa diventare uomini, cadere nelle lande del peccato, conoscere significa separarsi dall’uno originario. Lo stato di innocenza, condizione paradisiaca, è lo stato animale”. Secondo Hegel, “Il paradiso è un parco dove possono rimanere solo gli animali, perciò il peccato originale è il peccato tramite cui l’uomo si fa uomo.

Ci racconti cosa è per te la conoscenza, declinandola anche attraverso il mito?

 

Il sapere mitico comunica conoscenze, verità che difficilmente potrebbero essere espresse solo con un vocabolario ordinario, nel la conoscenza coinvolge l’uomo tout court: il suo intelletto, la sua anima, il trascendente, il destino e tutto ciò che riguarda il senso della vita. Il mito pertanto non è sapere neutro privo di conseguenze morali. È una forma di saggezza che guida l’individuo verso il bene, anche se possederlo comporta spesso un prezzo da pagare. Non a caso in alcune tradizioni mitologiche la conoscenza si acquisisce attraverso percorsi iniziatici che comportano sofferenza e prove difficili. In alcuni miti inoltre la visione escatologica come la conoscenza del proprio destino o del rapporto con gli dèi caratterizza il racconto, anzi diventa condicio sine qua non.

 

7 Accenni della dottrina della metempsicosi di cui parla Platone nella Repubblica, di metemspicosi si parla anche nel Faustus di Marlowe in cui – per riprendere il mito della conoscenza- il rifiuto dell’erudizione tradizionale, l’insaziabile sete di conoscenza  introduce subito il tema del “titanismo”  o “hybris” poiché cercando di conquistare il dominio sulla natura, mediante l’espediente della “cessione” della propria anima, Faustus baratta, appunto, ideologicamente la salvezza della parte “divina” dell’essenza umana. Perché la conoscenza, la ribellione dell’intelletto a ciò che lo limita è mitologicamente legata a cadute, espulsioni, messa al bando?

La ribellione dell’intelletto, la conoscenza di ciò che lo limita sono tematiche care al sapere mitico. Il legame con le messe al bando, alle espulsioni rimandano ad una concezione profonda del processo di trasformazione.

Esiodo racconta che il fuoco rubato agli dèi da Prometeo è un’azione trasgressiva che dona all’uomo progresso e civiltà ma tutti sappiamo il prezzo che paga il Titano.

Nella libro della Genesi Adamo ed Eva mangiano dell’albero della conoscenza del bene e del male, il frutto proibito, e vengono scacciati dal Paradiso terrestre. Anche qui c’è un prezzo da pagare, per la donna sarà: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli» la condanna per l’uomo invece sarà la maledizione del suolo «con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra» (Gen.3,16-18).

La trasgressione genesaica è si un cammino verso la consapevolezza ma è allo stesso tempo anche “caduta dell’uomo”, la rottura di un equilibrio (paradiso), di uno stato di perfezione e innocenza.

Il potere della conoscenza, con le sue verità scomode, nel mito rappresenta spesso la sfida dell’ordine stabilito che destabilizza l’ordine sociale o quello divino.

 

8 Ogni angolo di Napoli parla di storia, mito, di immagini ma anche di logos. Nel pensiero greco, il termine indica la «parola» come si articola nel discorso, quindi anche il «pensiero» che si esprime attraverso la parola, non a caso è riconducibile al verbo lego. Che significa per te raccontare? E perché raccontare Napoli attraverso i suoi miti, le sue strade e le sue piazze?

La domanda che mi poni comporta una risposta un po’più articolata.

Raccontare Napoli per me è educare al bello. Nella mia lunga carriera di insegnante ho portato intere generazioni di giovani a passeggio per la città tenendo delle vere e proprie lezioni in cui arte, religione, storia, filosofia, letteratura, mito e tradizioni popolari si intrecciano in “unicum” straordinario. Ho cercato di dare ai miei studenti la chiave ermeneutica per leggere le pagine di pietra di questo meraviglioso libro da sfogliare, ma interpretare e raccontare Napoli significa anche vivere le sue contraddizioni, le sue emozioni, la sua magia che contribuiscono a definirne l’identità.

La seconda parte della domanda è in un certo qual modo la conseguenza di tutto ciò che ho detto:

Perché raccontare Napoli attraverso i suoi miti? Perché Napoli muove i suoi primi passi proprio attraverso un mito di fondazione, quello della Sirena Parthenope.

Perché raccontare Napoli attraverso i suoi palazzi e le sue strade? Perché molti di questi sono legati a racconti che riportano la vita quotidiana dei napoletani legate a vicissitudini di personaggi famosi o di gente comune. Per motivi di tempo e brevità di risposta cito solo qualche esempio per capirci. All’inizio del Decumano maggiore, lato Castel Capuano, troviamo quello che i napoletani chiamano O’ spital ‘a pace ovvero il bellissimo palazzo di Ser Gianni Caracciolo, gran Siniscalco del Regno e amante della Regina Giovanna II che potremmo definire “il set cinematografico” della storia di un amore turbolento e viziato all’origine da un intreccio di sentimenti, ambizioni e potere. E proprio di fronte a questo palazzo, per parlare di strade, c’è vico Santa Maria Agnone. Qui la Cronaca di Partenope XIV sec., testo chiave per chi vuole iniziare a studiare le cose di Napoli, riporta la leggenda medievale di un enorme serpente che infestava tutta la zona terrorizzando il popolo napoletano. Un certo Gismondo per raggiungere l’altare dove San Pietro celebrò messa, racconta la Cronaca, l’avrebbe attraversata incurante del pericolo.

Nella notte precedente al devoto apparve la Madonna che gli disse di aver ucciso la bestia per rendere sicuro il suo passaggio e per salvare la città dalla sua pestilenza. In cambio, Gismondo avrebbe dovuto edificare a Maria un tempio, una chiesa, nel punto esatto del ritrovamento del serpente esanime (la chiesa di Santa Maria ad Agnone è situata subito dopo il palazzo di Ser Gianni Caracciolo).

In realtà la toponomastica poi ci dice che in origine questo vico era detto vico Corneliano dove fu scoperto un marmo su cui è scolpita una figura di un serpente che cinge un’ara, sulla quale un’iscrizione conferma il culto del dio della medicina: Elia Nice e Callisto medico posero in dono ad Esculapio ed Igia. In altri termini questo ritrovamento ci dice il perché questo vico è denominato Agnone: ci troviamo dinanzi a una sorta di un’anamnesi storica che riporta la degenerazione del termine anguis  in anguone che in latino significa “grossa serpe”.

 

 

9 Nelle numerose raffigurazioni presso i Greci le sirene non sono rappresentate modo “ittiomorfe”, come si potrebbe comunemente pensare, bensì ornitomorfe.

Questa particolare immagine è dovuta al fatto che per i Greci il canto delle sirene non era un richiamo di matrice erotica, bensì fonte di sapienza e conoscenza, come del resto si evince dal testo dell’Odissea, dove Odisseo, rinomato per la sua insaziabile curiosità, accettò il rischio di ascoltare ciò che le sirene avevano da dirgli. 

Quando e come, invece, le sirene hanno incominciato ad assumere l’aspetto attuale che tutti conosciamo? Ci racconti i reperti su cui è possibile rinvenire queste figure di donne mitologiche.

Il passaggio da donne-uccello a donne-pesce non è avvenuto, contrariamente a quanto tutti dicono, nei bestiari medievali ma molto prima. Negli anni ’70 sono state scoperte delle sirene-pesce nell’acropoli di Atene ed erano resti archeologici risalenti al III sec. a.C. pertanto la mescolanza dei due corpi delle sirene è molto più antica di quanto pensiamo.

Noi chiamiamo sirene due ibridi mitologici con due corpi totalmente differenti: le sirene donne-uccello e le sirene donne-pesce. Come risolvere questo busillis avrebbero detto gli antichi?

Le sirene di cui parla Omero, anche se non lo dice espressamente, sono delle donne-uccello con zampe e ali. Negli stessi anni in cui viene composta l’Odissea in Medio Oriente c’è però anche un’importantissima sirena pesce parallela alle nostre sirene uccello e il suo nome è Siria, la dea Siria. Questa sirena pesce arriva da noi e si ibrida mescolando i suoi miti con i nostri e l’anello di congiunzione culturale è la presenza consistente di Fenici che intorno all’VIII sec. a.C. stanziava ad Ischia (Πιθηκοῦσσαι). A quanto sembra questa comunità fosse in ottimi rapporti con i coloni euboici ed è facile dedurre che la Sirena pesce sia giunta a noi proprio attraverso questi mercanti Fenicio-Siriani.

La dea Siria, anch’essa vergine e fondatrice di città, fu così importante da dare il nome alla nazione stessa e i siriani sono figli della sirena Siria così come i partenopei sono figli della sirena Parthenope. Allora dopo questa piccola premessa per rispondere alla tua domanda, penso che i miti di donne-pesce e donne-uccello ad un certo punto della storia si siano mescolati e a quel punto non aveva più importanza la predominanza metà pesce o uccello perché la seduzione avveniva sempre dalla parte alta, quella rimasta sempre costante ovvero dalla parte “donna” o meglio dalla voce.

Un’altra spiegazione ci è data dal neoplatonico Proclo che sostiene che a un certo punto le sirene presero vie diverse, quella del mare e queste sirene divennero molto seduttive e le sirene degli inferi che rimasero donne-uccello. Ci fu uno switch, una divisione di compiti per cui questi due corpi spiegherebbero due vocazioni mitologiche diverse.

 

 

10 La sirena Partenope, fu portata dalle correnti marine proprio tra gli scogli di Megaride (dove oggi sorge Castel dell’Ovo). Lì fu trovata da dei pescatori che la venerarono come una dea, una volta approdato sull’isolotto, il corpo della sirena si dissolse trasformandosi nella morfologia del paesaggio partenopeo.

Omero dice che dopo la vittoria di Odisseo, le sirene si lasciarono annegare dal disonore del fallimento, e i loro corpi furono trasportati dai flutti e dalle correnti. Licofrone di Calcide (IV sec. a.C.), per usare una terminologia moderna potremmo dire, geolocalizza lo spiaggiamento delle tre sirene: Leucosia nel golfo di Posidonia (promontorio Enipeo sull’isoletta da lei detta Leucosia o Capo/Punta Licosa nel Cilento), Ligea di fronte a Terina in Calabria, nell’attuale golfo di Sant’Eufemia mentre il viaggio più breve è quello della nostra Parthenope in quanto le onde la sospinsero attraverso le bocche di Capri, la costa di Sorrento fino a Megaride, dove oggi c’è Castel dell’Ovo.

Sul corpo della Sirena, dice il maestro Roberto De Simone, poggerebbe tutta la città, e l’intero golfo. La direttrice est-ovest, rappresenta il suo corpo simbolico adagiato sulla costa. A oriente della città, a Caponapoli, si posa la testa della sirena. Non è un caso che le zone di quel versante si chiamino Capodichino e Capodimonte. A piazzetta Nilo, il centro della città, abbiamo le sue viscere che i napoletani in dialetto chiamano ò cuórpo e Napul (Corpo di Napoli) dove è ubicata una statua che ritrae il dio Nilo disteso voluta dalla comunità degli alessandrini al tempo di Nerone. A ovest, infine si collocherebbero i piedi (Piedigrotta anticamente era detta anche Pede rotta o piede della grotta e la collina di Posillipo che, vista dal mare, ha proprio l’aspetto di un piede). Per usare un lessico moderno potremmo dire che la sirena Parthenope è una divinità, un nume etno-identitario nel quale la città si riconosce. Ma c’è di più, ed ecco il mito di fondazione, venendo a morire sulla costa, il corpo della vergine nera Parthenope la feconda e pertanto la fonda. Nel racconto la sirena arriva sulla costa e segna l’inizio dell’insediamento. Sia i miti eziologici che quelli cosmogonici, hanno alla base questo schema: si passa dal nulla, dal vuoto o dal caos primordiale all’atto creativo e quindi alla realtà. «Può sembrare un gioco di parole, e di fatto lo è, ma fino a un certo punto: Napoli nasce per Parthogenesi»

 

11 Nel mondo globalizzato della libertà delle merci sono cresciuti da tempo muri e barriere per motivi di guerra o di ripulsa, ci parli del simbolismo delle porte e della cinta muraria nell’antichità e quindi anche per la città di Napoli?

Quando parliamo di murazione a Napoli dobbiamo distinguere tre cinte murarie che si sono susseguite nel tempo, la prima quella greco-romana che si snoda dal VI al III secolo a.C., la seconda voluta nel medioevo da Carlo I d’Angiò (XIII sec.) e la terza voluta da Ferrante d’Aragona nel 1474. Al di là del valore difensivo delle mura e delle porte l’aspetto più intrigante è il loro simbolismo.

La porta è un luogo di passaggio fra due stati, fra il conosciuto e l’incognito, è l’apertura che ti permette di entrare e di uscire, è un passaggio ma allo stesso tempo rappresenta un invito a superarlo. Le porte e le mura delimitavano i confini delle città e in alcuni casi una divinità proteggeva sia l’entrata che l’uscita: Giano bifronte ad esempio proteggeva le porte delle città romane. Il culto delle porte non è che una variante di quello delle mura, nell’antica Roma le mura erano res sacrae ed erano difese dalle leggi in quanto elemento costitutivo del suo perimetro (forma urbis). Non si può concepire una città senza cinta muraria, un temenos esiste sempre! Nell’immaginario collettivo sono le mura a rappresentare la città a tutti gli effetti, sono le mura distrutte a segnare la caduta di una città, non la distruzione delle case.

Le città antiche con le loro mura, nate da un preciso gesto della volontà umana, sottraevano e sostituivano all’estensione geografica indifferenziata del caos naturale l’ordinato spazio gerarchico dell’insediamento. Il muro è la linea di demarcazione tra il dentro e il fuori, tra gli spazi aperti e quelli chiusi. L’importanza di questa prima forma elementare di costruzione è ribadita presso tutte le culture tradizionali, con la sacralità attribuita alla costruzione del limite: la costruzione di un muro, una recinzione minima, richiede vaticini, divinazioni, auspici, offerte sacrificali e cerimonie particolari. In ogni caso le mura venivano mitizzate come atto degli déi, degli antenati, dei fondatori delle tribù o della famiglia

 

12 Ne “La lunga strada di sabbia”, Pasolini, appena arrivato a Napoli, cena al Ristorante Ciro al Borgo Marinari, ancora oggi presente. Lo scenario che accoglie il poeta è quello maestoso del Castel dell’Ovo, insieme all’universo dei personaggi che affollano il ponte che porta all’isolotto di Megaride. A impressionare Pasolini sono soprattutto i ragazzini che si tuffano in acqua per raccogliere le monete lanciate dai turisti, si tratta dei bambini “sommozzatori”, già citati da Raffaele Viviani in “Pescatori”. Le monete di Neapolis sono testimonianze di antichi culti.

Il discorso sul simbolismo delle monete di Neapolis è articolato e complesso. Attraverso alcune monete possiamo recuperare la memoria di antichi culti a Neapolis e in Campania. Nelle società moderne il valore prevalente della moneta è quello economico, ed è a questo titolo che essa svolge prevalentemente la sua funzione essenziale. Ma il passaggio alla concezione puramente quantitativa della moneta ha segnato l’oblio della sua concezione simbolico-qualitativa. Solo chi ha “occhi per vedere” riesce scorgere e leggere che le antiche monete sono letteralmente coperte di simboli che spesso la tradizione ha scelto fra quelli che presentano un significato particolarmente profondo. Cito solo alcune monete che riporto nel mio libro come le Emiltre ritrovate in territorio campano o la moneta di Cales che sono una chiara testimonianza del culto di Apollo. Sulla copertina poi il lettore può ammirare lo stupendo didramma di argento, un vero proprio pantheon neapolitano in cui secondo diversi registri narrativi possiamo scorgere sul “dritto” Parthenope e Artemide (sorella di Apollo) con una piccola fiaccola, mentre sul “rovescio” della moneta c’è la sirena che svolazza su un toro androcefalo (Apollo). Altri leggono la sirena come la costellazione della Vergine (non dimentichiamo che vergine in greco è Παρθένος) che durante l’equinozio di autunno sorge sopra il Vesuvio quasi ad onorarlo e alcuni sembrano vedere il dorso del toro proprio richiamare il complesso vulcanico monte Somma e Vesuvio.

 

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