Napoli
A Napoli spettacoli e attori di qualità
Non c’è nulla da fare: al di là di ogni retorica, e di ogni polemica, Napoli continua ad essere capitale del teatro, ora e sempre fucina d’attori e di attrici.
Così capita che in due giorni passati sotto il Vesuvio si possono vedere due spettacoli e l’esito di un workshop, correndo dal Teatro San Ferdinando, al Mercadante e al Diana. Ed è un piacere personalissimo vedere i teatri napoletani abitati da registi e artisti quaranta-cinquantenni che ho incontrato oramai tanto tempo fa, quasi agli esordi delle loro carriere. Così ecco Davide Iodice, Pierpaolo Sepe, Arturo Cirillo (mentre al Nuovo c’era in scena anche Ascanio Celestini).
Allora provo ad attraversare gli spettacoli visti, del tutto diversi tra loro, tentando di rintracciare un filo rosso non tanto nella cifra registica quanto nell’arte attorale.
Comincio proprio dalla robusta produzione di Zio Vanja, in scena al Mercadante, con la regia di Pierpaolo Sepe. Questa stagione lo Stabile – ora Teatro Nazionale – ha puntato su un articolato progetto dedicato ad Anton Checov: più o meno lo stesso gruppo di attori, la compagnia stabile, guidata da registi diversi, ha affrontato i grandi capolavori checoviani. Di questo Vanja mi piace sottolineare e focalizzare l’attenzione sulla prestazione di due interpreti: Giacinto Palmarini, che è nel ruolo protagonista, e Andrea Renzi, che veste i panni del dottor Astrov. Infatti, se gli altri componenti il cast hanno confermato il proprio livello attorale, fornendo comunque buone interpretazioni, Palmarini e Renzi hanno fatto qualcosa di speciale. Giacinto Palmarini è un attore garbato, pulito, elegante. L’ho sempre visto in ruoli significativi, ma (almeno per quel che mi riguarda) raramente primari: qui, finalmente, si prende il suo spazio e lo sfizio di dare i suoi toni e i suoi ritmi – quel modo febbrile eppure timido di stare in scena, quell’aria sempre un po’ dispiaciuta, contrita – a un Vanja credibilissimo, oltre ogni abituale nevrosi. Senza connotazioni geografiche o tipiche, questo Vanja si svela nel finale, mostrando una parabola solo e semplicemente umana: per la prima volta, forse, ho avvertito il senso profondo, vero, di quell’amaro «ho 47 anni». L’ho capito non solo per assonanza biografica (ne ho già 48!) ma proprio per il senso di impotenza, stanchezza, dolore, frustrazione, rabbia, disillusione, che Palmarini ha messo nel personaggio.
Poi, Andrea Renzi. Che è attore “di ricerca”, dal percorso innovativo e spesso anomalo. Sempre all’altezza della situazione (ricordo un magnifico omaggio a Majakovskij, tanto per dirne una), qui Renzi mi sembra entri finalmente nella maturità artistica. Esce dagli stilemi di Astrov, nel mostra debolezze e spavalderie, lo rende aspramente o dolorosamente quotidiano, consapevole. Probabilmente – ma l’azzardo è facile – vedremo una nuova carriera di questo attore, magari più orientato ai classici non solo del Novecento, oltre che ai contemporanei: Andrea Renzi è ancora da seguire con ogni attenzione.
La regia di Sepe – asciutta, nitida, addirittura plumbea – lascia giustamente spazio agli interpreti, aggiunge qua e là degli elementi (l’amplificazione dei rumori, i giganti pannelli trasparenti che tagliano lo spazio scenico vuoto) ma punta chiaramente alla resa tagliente di questo Zio Vanja. Altro che vaudeville: qui Cechov serve a raccontare il “fallimento” di una intera generazione, che è la nostra. E non si salva nemmeno Elena, che per Checov doveva essere una ventisettenne, e che troviamo (nella snella figura di Gaia Aprea) donna consapevole, amaramente disillusa al pari degli altri.
Al Diana, invece, era di scena La Gatta sul tetto che scotta, con la regia di Arturo Cirillo. Al di là della roboante presenza della aggraziata Vittoria Puccini – generosa quanto affascinante ma decisamente troppo monocorde per il ruolo – e oltre alla spavalda e dolente interpretazione di Vinicio Marchioni, ormai vibrante e apprezzato protagonista del teatro italiano, mi prendo il lusso di segnalare due attori che danno verve alla cupissima commedia di Tennessee Williams: Paolo Musio e Franca Penone, che impersonano i genitori del protagonista Brick.
Con il sostegno produttivo della compagnia Gli Ipocriti e del Teatro della Pergola, Cirillo svicola dal confronto con il film e allestisce uno spettacolo da “giro”, di sicuro successo: non ci sono astruserie, tutto funziona, il testo tiene il tempo, il cast è solido (vale la pensa citare anche la brava Clio Cipolletta, Salvatore Caruso e Francesco Petruzzelli).
Ma ci sono quei due, che spostano una replica pomeridiana domenicale in un momento raro: Musio fa il padre-padrone, feroce, negativo, caustico, violento. Giganteggia nella scena del confronto con il figlio (ed è notevole anche Marchioni): è uno scontro asprissimo tra i due. Grande teatro. Paolo Musio ha alle spalle anni di lavoro – con compagnie di ricerca, con grandi maestri, in monologhi – mostra un talento vero, di grande complessità. Franca Penone, nel ruolo della madre “svampita”, tiene sapientemente ritmi e tensioni, mescola superficialità apparente e consapevolezza, si squarcia in un affondo nella tragedia che è da brividi. Attrice a lungo “ronconiana”, ma protagonista anche in altri percorsi artistici, la Penone dà a questo personaggio certo minore, un piano emotivo ampio, svelandone il feroce dramma interiore.
Infine, arrivando al Teatro San Ferdinando, (che è sede della nuova scuola diretta da Luca De Filippo) ho trovato Davide Iodice. Da sempre regista che sposta il limite del “rappresentabile” indagando territori oscuri di una Napoli fatta di marginalità e di disagio, Iodice ha affrontato, sempre con il Teatro Stabile, un progetto europeo di incontro (e forse scontro) con il corrispettivo Folkteatern di Göteborg. Il progetto, articolato e pluriennale, si chiama Cities on stage, sostenuto dal Programma Cultura della Commissione Europea, e si basa sullo scambio e sulla collaborazione tra artisti di culture e provenienze diverse. In questo caso, un gruppo di 7 attori e performer svedesi hanno vissuto per un paio di settimane a Napoli, guidati nella scoperta dei meandri cittadini da Iodice e dai suoi collaboratori. Fulcro e punto iniziale della ricerca il bellissimo “Cristo velato” della Cappella san Severo. Il lavoro, fatto di analisi sul campo e improvvisazione, è stato poi imbastito e quindi montato dal regista, in un esito finale titolato Il Velo.
È stato un allestimento scenico per “numeri”, un assemblaggio di quadri diversi, tendenzialmente assoli o monologhi, legati dalla musica live. I performer – danzatori, attori, cantanti – hanno intessuto un racconto per frammenti e visioni, scandendo luoghi comuni e scavo nell’intimità, esplodendo in dinamiche poetiche o brutalmente fisiche. È stata una traduzione scenica di suggestioni e impressioni, frutto di una “antropologia al contrario” di chi si fa osservare dallo “straniero”, da chi viene da lontano. Napoli vista dagli svedesi è ancora impregnata di violenza e bellezza, è ancora quella complexio oppositorum, quell’ossimoro eterno fatto architettura che ben conosciamo. Una città dove si respira un senso di morte pregnante, dove l’icona del teschio, la “capuzzella” del Cimitero delle Fontanelle, è oggetto di un culto che rasenta il paganesimo e non è solo uno strumento “clinico per studi anatomici”, come dice con ironia uno dei protagonisti. Ecco allora un Pulcinella impacciato e spaventato che “vuole tornare a casa”, ecco una fanciulla che combatte con i (propri) fantasmi, ecco ancora il rapper pronto a farsi killer o la poetessa di strada, che regala disperata liriche o fantasie: è la Napoli di Filumena Marturano o di una Cenerentola violentata. Kristin, Robert, Peter, Caroline, Gemma, e la multistrumentista Harriet hanno raccontato la loro Napoli.
Attori e attrici che, ancora una volta, svelano il mondo.
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