Milano
Woody Allen dal cinema al teatro musicale con Gianni Schicchi alla Scala
L’insolito abbinamento delle due opere in un atto Prima la musica poi le parole (1786) di Antonio Salieri e Gianni Schicchi (1918) di Giacomo Puccini in scena a Milano dall’8 al 19 luglio al Teatro alla Scala, ha suscitato reazioni divergenti, persino aspre e caustiche nella critica verso la regia dello Schicchi affidata a Woody Allen, peraltro già nota, ripresa della produzione del 2008 e 2015 all’Opera di Los Angeles, unica sua esperienza nel teatro d’opera. Due punti fermi non cambiano comunque: la visione che hanno all’estero dell’Italia, e il rapporto che un regista ha con la partitura, non sempre correlato ai procedimenti musicali. Certo, Woody Allen potrà molto difficilmente imbastire totali buchi nell’acqua in palcoscenico, e, d’altro canto, il suo personale rapporto con la musica non è nemmeno del tutto trascurabile, almeno per l’assidua frequentazione del jazz al clarinetto e la dimensione artistica estemporanea ad esso correlata.
Nella sua scena fissa, questo Gianni Schicchi viene marcato a fuoco con alcuni tipici luoghi comuni dell’italianità vissuta da un certo e datato immaginario collettivo internazionale: una gigantografia di Firenze sul fondo (sguardo panoramico alla città d’arte dove è ambientato il libretto) sovrasta alcuni resti di rovine romane infilate in una camera popolare, panni appesi fra le quinte come in una contrada popolare, l’ensemble di personaggi vestito in abiti scuri sì ma dal richiamo mafioso – vista la truffa in scena – con tanto di coppola, coltelli e gessati, il tutto ricreando una little italy newyorkese anni ’30. Tuttavia, più che tentare di richiamare il neorealismo italiano, risulta difficile emulare le ricostruzioni cinematografiche più recenti di Sergio Leone, ma siamo in una commedia, e il regista prende letteralmente quanto a molti non piace e che purtroppo ancora ci caratterizza all’estero. Nemmeno tanto provocatorio, piuttosto ironico invece, alla faccia di tanti allestimenti inutili e di circostanza che siamo spesso costretti a sciropparci in teatri blasonati.
I personaggi si muovono bene, come in un film, anche i piccoli gesti (e gestacci) sono dosati, in un contesto e fra dinamiche accoglienti e non irriverenti, anche se Buoso viene appoggiato a terra come un clochard. Woody Allen ci ha risparmiato, almeno, pizza, caffè espressi e moke, cassate e cannoli. Certo che la fantasia non regna sovrana, e ormai anche la caricatura sugli italiani è essa stessa un luogo comune, ritualizzata. E la brevità dell’opera non giova nemmeno a rimescolare le carte per aprire qualche varco verso altre prospettive. Da Woody Allen ci si aspetterebbe di più. Altra questione è la mancanza di riferimento al clima culturale in cui nacque lo Schicchi: tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento la rievocazione dell’antico e del Rinascimento fu un topos del teatro musicale, a cui parteciparono anche Zanetto e Parisina di Mascagni, Francesca da Rimini di Zandonai, I Medici di Leoncavallo, Paolo e Francesca di Mancinelli, Una tragedia fiorentina di Zemlinsky, Mona Lisa di Schillings, Violanta di Korngold, Palestrina di Pfitzner, Massimilla Doni di Schoeck. Un periodo storico di complesse transizioni di cui non v’è traccia.
Eppure, il vero problema di questa produzione non era il regista ma, insolitamente, la direzione musicale di Adam Fischer, su cui non c’è molto da dire, purtroppo. Maestro di lungo corso e dal vasto repertorio, ha sempre brillato soprattutto in ambito sinfonico, ma alla Scala ha tirato fuori ben poco dall’orchestra di Puccini, con una concertazione di mera circostanza, srotolata in un gigantesco accompagnamento di routine. Peccato. Il respiro era in effetti sinfonico, ma senza un’identità in grado di evidenziare quelle unicità novecentesche che fanno la differenza, incluse inusitate anticipazioni bartokiane.
Non brilla del resto nemmeno l’operina di Salieri, affondata in recitativi secchi micidiali, e realizzati con una rara monotonia ricorrente che immobilizzava l’azione. L’orchestra suona bene, ma le idee scarseggiano e la partitura, del resto, non aiuta. Questo divertimento teatrale di Salieri – che all’epoca andò in scena a fianco di Der Schauspieldirektor di Mozart – è un compendio di convenzioni linguistiche, di quanto di più prevedibile ci si possa aspettare dalla musica del ‘700. Eppure, aiuta a comprendere, mostrandole su un piatto d’argento, seppure su un piano metateatrale, certe consuetudini d’epoca e quanto, per converso, sia stato immenso, invece, il genio mozartiano che da quei cliché si è staccato spiccando il volo. Alla faccia di chi, addirittura, oggi, tra terrapiattisti e negazionisti, nega anche l’evidenza storica e l’intelligenza altrui, mercificando teorie bislacche e strumentalizzando la tradizione operistica italiana usandola, anche con risvolti nazionalisti, contro Mozart e il classicismo viennese. Ne è stato scritto parecchio, anche su queste pagine (clicca), ma ci piace ricordarlo, tema spesso emergente: un campanello d’allarme va sempre acceso dato che oggi le insidie si annidano anche nella musica e nella cultura. Meglio non fingere di non vederle, come molti fanno ancora. L’erba cattiva è infatti dura a morire, e bisogna combatterla. Non è del resto quello seguito da alcuni accoliti illogici il filone da abbracciare per avvicinarsi a partiture italiane scomparse e ripescate nel repertorio. È indubbiamente vero però che la letteratura operistica italiana da Vivaldi in poi merita sempre attenzione e continui approfondimenti, per comprenderne il ruolo non solo nello sviluppo del teatro musicale ma anche dello sviluppo dello stile classico, secondo un processo tuttavia unitario che non trova alcuna giustificazione in termini di supremazie culturali e contrapposizioni di stampo nazionalistico. Questo processo di riscoperta è sempre in movimento e c’è indubbiamente molto lavoro da fare, anche se si fatica a trovare i capolavori. In almeno due passaggi Salieri sembra anticipare Rossini, facendoci percepire come il linguaggio fosse in continua evoluzione e trasformazione.
Insolita la presenza di due registi, come dire, che uno solo non fosse in grado di affrontare due partiture o che ci siano registi di serie A e B. L’elegante allestimento firmato da Grischa Asagaroff non aggiunge granché ai cliché di Salieri, la musica sembra essere dominante se le scene presentano sagome di enormi strumenti musicali o di loro sezioni come in una sorta di paese delle meraviglie.
Il copioso cast porta in scena gli allievi dell’Accademia della Scala insieme all’affermato e applaudito Ambrogio Maestri, che domina il palco di entrambe le opere come protagonista indiscusso (Maestro di Cappella in Salieri e Gianni Schicchi in Puccini), non senza alludere quasi a Falstaff di Verdi per certe movenze. Ben calato nel ruolo e recitato il suo Schicchi, convincenti le arcate vocali. Lucente anche se ordinario il Rinuccio di Hun Kin mentre Francesca Manzo trova un dosato raccoglimento per Lauretta. Applausi calorosi.
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