Milano
#Voceaigiornalisti, in piazza per chiedere diritti
Non capita spesso di vedere dei giornalisti in piazza che, anziché essere muniti di taccuino e penna o di telecamera e microfono o semplicemente di uno smartphone con un punto audio connesso, sventolano una bandiera, fanno un corteo e manifestano in difesa di un lavoro sempre più precario. Le ragioni della manifestazione di Milano #voceaigiornalisti sono molteplici e richiedono una spiegazione.Prima di tutto: la categoria paga una precarietà sempre più diffusa, figlia di margini sempre più stretti. Così si fatica ad andare avanti. Gli editori pagano la disintermediazione provocata dall’avvento della tecnologia e dalla perdita del valore aggiunto, prodotto dal capitale. Di fronte a questo sconvolgimento epocale la precarizzazione è la prima evidenza empirica. Meno vendite vogliono dire meno incassi, meno incassi significano meno soldi a disposizione e quindi meno posti di lavoro. Esiste un modo per ridare smalto alla categoria e almeno parte dei diritti perduti sul piano salariale? Seconda questione: indebolire la categoria, significa indebolire la democrazia. E – peggio ancora – significa lasciare soli quei giornalisti che interpretano il ruolo come impegno anche al racconto scomodo, specie quando la controparte è la criminalità organizzata. Troppi giornalisti finiscono con il dover girare con la scorta rinunciando ai propri diritti civili solo per la narrazione che fanno della criminalità organizzata e delle sue strutture. Dunque in piazza, nel capoluogo lombardo, si sono ritrovati i giornalisti pagati 5 euro a pezzo, oppure quelli che passano da un’azienda ad un’altra, in una costante precarietà la cui percezione finale è quella di una bullizzazione del mercato editoriale. A loro volta gli editori pagano il combinato disposto della miopia imprenditoriale e contemporaneamente del disincentivo provocato dalla tecnologia che accorciando i margini del valore ha prodotto ristrettezze economiche da una parte; ma anche una sistemica incapacità di interpretare il cambiamento provocato dalla contemporaneità. Si assiste così al paradosso di quanti – soprattutto tra le testate più importanti – perseverano nell’investimento su carta quando più nessuno la utilizza, rinchiudendosi in un recinto, allorquando, appena di fronte, una semplice osservazione razionale consentirebbe di verificare che il valore si è tradotto sul web dove ancora in pochi ( tra gli editori) hanno il coraggio di andare mentre la gran parte dei cittadini vi accede in sempre maggior numero. Eppure se la più importante testata italiana vende appena 300 mila copie, quando un semplice video può raggiungere vette molto più alte in poche ore, come si può pensare che il valore non ci sia più? In realtà osservando le leggi della natura si può addivenire ad una plausibile soluzione del problema. Nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Dunque se tutto si trasforma, deve essersi trasformato anche la generazione del valore. Saperlo ricercare e dargli forma è la sfida del futuro. Anche perché tra vent’anni l’80% delle occupazioni odierne non ci saranno più. I cantastorie tuttavia esistono da millenni. Neppure la volontà di alienarli dal contesto sociale, per interessi economici e politici, consentirà di raggiungere quest’obiettivo. La narrazione, il racconto, è parte stessa della dimensione storica dell’umanità. Dell’identità collettiva ed individuale. Nessuno potrà espropriarla. Il giornalismo cambierà pelle, ma non si estinguerà. Di questo ho parlato con Beppe Giulietti Presidente della Fnsi, il Segretario aggiunto Anna Delfreo, e con Paolo Perucchetti dell’Associazione Lombarda dei giornalisti
Devi fare login per commentare
Accedi