Milano
“Una sanità universale e pubblica”
Stai sotto il sole per due ore. Ti sgoli,con il tuo megafono, per sostenere il diritto ad avere una sanità pubblica. In cui le persone non si ammalino una volta dentro un ospedale, a causa delle infezioni ospedaliere.
Ti presenti davanti al Palazzo della Regione, di fronte la sede dell’Assessorato alla salute, portando con te le tue idee e le tue testimonianze.
Gli appalti pubblici che riducono il personale e il salario di chi ci lavora, tanto per cominciare. Urli la tua indignazione perché ci sono stati ospedali che non avevano i dispositivi di sicurezza all’inizio della pandemia; e magari per questo qualcuno ci ha rimesso la vita. T’incazzi perché, pensando ai tanti anziani nelle RSA, la regione lombardia ha contingentato gli ingressi ai parenti con il criterio del minutaggio. Trattando esseri umani come fossero pacchi di Amazon. E avresti voglia che i politici venissero a rendere conto di quello che la Lombardia è diventata nella sanità. Avresti voglia di parlare di terapie domiciliari dolosamente dimenticate in tutti questi mesi, che avrebbero potuto salvare vite umane se ci fosse stata una medicina del territorio.
Invece non solo nessun politico si degna di filarti ma, bontà loro, ti ricevono nei loro sontuosi uffici per grazia ricevuta, chè mica è piacevole sudare sotto i primi soli estivi. Meglio farlo seduti sulle proprie comode poltrone con la segretaria ossequiosa che ti porta il caffè.
Inoltre devi sentirti domandare dai giornalisti “perché giustificate chi non si vuole vaccinare lavorando in un ospedale”. Che fa a pugni con il fatto che chi risponde in questo caso lavora in ospedale o in una RSA, è vaccinato, ha fatto il Covid, perché c’è stato un lungo momento in cui il virus lo ha combattuto a mani nude, e poi il vaccino lo ha fatto fare a tutta la famiglia.
Decisamente contraddice il buon senso, porre domande di questo tenore, non a chi sta sostenendo il diritto a non vaccinarsi per ragioni pretestuose, ma a quanti si battono per il principio per cui chi non si vaccina non può essere messo in mezzo una strada togliendogli il salario.
Non è un modo per giustificare chi salta il vaccino ma semmai una ragione per riflettere e comprendere le ragioni per cui qualcuno dubita di una terapia sperimentale. Perché l’Italia non è (ancora) come la Corea del Nord, e perché non esiste l’obbligo vaccinale, oltre ad esistere ancora il diritto al dissenso.
Eppure è proprio quello che alla fine è successo. Una manifestazione che ha fatto sentire la voce di chi chiede più sanità pubblica, si sente oppugnare che la sanità buona è quella odierna, che ti vaccina anche se prima non ti ha dato i dispositivi di protezione, non ti ha fatto il tampone e oggi, senza guardare le cartelle cliniche di ciascuno, ti obbliga, moralmente, a sentire la responsabilità di metterti in fila e farti bucare un braccio, senza fare alcuno screening, senza visitarti, senza farti almeno un esame sierologico prima di inocularti una dose di una cosa che non sai cosa produrrà nel medio e lungo periodo al tuo corpo. Sai solo che aumenta le difese immunitarie contro il Sars Cov 2 che conosciamo, ma non è detto lo faccia con le sue varianti. Infatti, è un coronavirus.
E quando chiedi che gli appalti pubblici non siano l’occasione per tagliare i l’occupazione, o per sfruttare la forza lavoro, facendola lavorare di più a parità di salario, ti senti domandare: “Ma lei vuole difendere chi non si vaccina mentre lavora in corsia?”
È lì che capisci probabilmente cosa sono stati 30 anni di narcisismo collettivo via cavo.
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