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Una giornata all’Expo
Posti a sedere non ce ne sono. Si susseguono una dopo l’altra le stazioni della metro, Uruguay, Bonola, S. Leonardo, Molino Dorino, Pero, nessuno scende. Vanno proprio tutti a Rho-Fiera, dove il treno si svuota e la folla si dirige compatta verso il gate dell’Expo. Il fascino sovietico demodé del metrò milanese stride un po’ con la nuova e asettica stazione che Trenitalia ha costruito da queste parti, ma nessuno sembra farci caso.
Sono circa le undici di mattina di un venerdì feriale ma già quasi weekend, a Milano sembra tornato l’autunno, il cielo è grigio, la temperatura è scesa, e minaccia pioggia. All’ingresso c’è già diversa gente, sul decumano sciamano in molti, nel corso della giornata si riempirà tanto da rendere la circolazione complicata e piuttosto poco piacevole. L’Expo Milano 2015 – tema: Nutrire il pianeta, Energia per la Vita – è aperto esattamente da due settimane.
C’è ancora quell’aria di novità e curiosità, qualcosa ancora non è pienamente attivo (poco, a dire il vero, tra gli altri il piccolo padiglione di Cuba), qua e là si percepisce un senso di incompiuto, ma c’è vita sul chilometro e mezzo lungo cui si snoda questa piccola internazionale e soprattutto multinazionale dell’esposizione, questa fiera alimentar-promozionale che occupa 110 ettari a nord-ovest di Milano. Le migliaia di visitatori che affollano questo o quel padiglione seguono regole non scritte difficilmente interpretabili: perché, per esempio, lo spazio dell’Angola, uno dei primi ad apparire sulla sinistra, è accessibile solo previa lunga fila? Che sia la falce e martello che appare sulla bandiera angolana a fare da catalizzatore? E il Giappone, dove un cartello con gentile addetto segnala un’ora di coda? Mentre si entra senza problemi in quello russo, o in quello degli Stati Uniti. In quest’ultimo caso forse è perché il padiglione non è, diciamo, dei più riusciti – ma almeno sulla terrazza tre giovani americani si sono improvvisati Dj e alternano macarene seguite da più recenti balli, un trash (decisamente una delle cifre dell’intera esposizione) divertente quanto in contrasto con l’ambiente circostante: è mezzogiorno di venerdì, Milano è grigia, non fa caldo e la pioggia è ormai imminente, ma le spiagge della Florida durante Spring Break non sono mai state così vicine. Il pubblico danzante? Naturalmente gli studenti delle gite scolastiche che affollano l’Expo. Sono così tanti che a tratti sembra di essere risucchiati in una gigantesca gita scolastica intergenerazionale, dai bambini delle elementari (pardon, primarie) gioiosi e confusi che stressano le maestre spaventatissime dal perdersene un paio e che si divertano, solo loro, davanti alla sfilata con mascotte e musichetta da circo, fino ai liceali contenti per questa libera uscita: è tutto un “dai andiamo al Vietnam” “no prima l’Italia”, come fosse una sorta di mondo in miniatura finalmente a disposizione di tutti. Forse troppo: in uno spazio relativamente ristretto sono accalcati decine di spazi espositivi, esci da Israele e per ritrovarti nel retro dell’Italia, pensi di essere ad un’esposizione sulle pratiche alimentari mondiali e senza soluzione di continuità spunti davanti ad un McDonald’s, Iran e Usa sono quasi dirimpettai, stili diversissimi convivono in spazi ristrettissimi, pacchianate di vario tipo che si scontrano con la fredda ed educata estetica nordeuropea, e via dicendo. L’Italia ha uno spazio d’eccezione, il cardo che taglia in due il decumano, ci sono gli stand regionali (incluso quello toscano con uno slogan che dovrebbe essere in inglese, e invece non ha molto senso: possibile che non ci sia nessun madrelingua in tutta la Toscana?) e c’è l’albero della vita, il monumento simbolo dell’Expo: questa nostra Tour Eiffel non è brutta, ma non è neanche bella, è piuttosto un grande boh, un punto interrogativo estetico grande almeno quanto la sua futura destinazione – speriamo il più possibile lontano dagli occhi e lontano dal cuore.
Si mangia tanto, ovunque, di tutti i tipi, e sembra bene – abbiamo provato il piccolo e buono ristorantino rumeno, menù pranzo prezzo fisso 9.90 incluso bicchiere di vino, ottimo anche per ripararsi dal temporale che nel frattempo si abbatte su Expo. Ce ne è quindi per tutte le tasche, ma del resto non potrebbe essere così dopo che si paga almeno 34 euro (a meno che non si vada la sera) per entrare a vedere quello che è, soprattutto, un gigantesco showcase di glorie alimentari e turistiche. Un tempo l’Expo era un’esposizione dove si portavano le proprie novità scientifiche e affini, si costruivano ponti culturali con altri paesi, erano veri motivi di incontro transnazionali: almeno all’apparenza c’è poco di tutto ciò a Milano, e soprattutto c’è poco o nulla di questa dimensione storica, all’Expo stesso e in tutti i discorsi pubblicitari e promozionale non si ricorda che le esposizioni internazionali sono nate più di un secolo e mezzo fa, ce ne sono state decine di diversi tipi, in molti paesi del mondo. Che insomma questa grande fierona di paese/i non è che un episodio di una storia in genere più gloriosa. A cosa serve questa roba, si paga per vedere cosa, è una domanda che in tanti si pongono. Ma lo showcase funziona, va ammesso, il marketing è andato alla grande, tutti sorridono e ti aiutano a trovare questo o quel padiglione, e la gente sciama, un po’ come una notte bianca o il capodanno in una grande città ci si sposta alla ricerca di qualcosa da fare, di una giustificazione per esserci. La città di Milano sembra beneficiare da tutto questo movimento e questo senso, magari un po’ effimero, di esaltazione. In una giornata certo si vede quel che si può, ma del resto quanti visitatori avranno tempo (e risorse economiche) per stare più di una giornata all’Expo? E quindi la domanda resta: che senso ha oggi, l’Expo? A cosa serve mettere in moto una macchina del genere? Che sia rimasto solo un modo per smangiucchiare cibi dal mondo potendo dire “io c’ero”? Immensa gita scolastica, potente meccanismo promozionale e politico, Coney Island meno divertente, sagra paesana in collaborazione con multinazionali alimentari, questo Expo di Milano, soprattutto, stanca: a fine giornata ci si sente spossati, pieni, confusi, a chiedersi di nuovo, ma perché o meglio per cosa si spendono 34 euro?
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