Milano

Un sociologo in Expo

1 Agosto 2015

Lo ammetto: un po’ prevenuto lo ero. Alcuni dei miei amici, di cui mi fido abbastanza, mi avevano raccontato di sponsor improbabili in bella mostra (McDonald, Ferrero, TechnoGym, mancava soltanto la perfida Monsanto…) per un Expo dedicato al tema della nutrizione del mondo. Come dire: coloro che contribuiscono all’abbrutimento del pianeta si mettono in vetrina come redentori. Altri mi parlavano di una specie di EuroDisney, ma senza divertimento, o di una fiera paesana. Altri ancora di padiglioni che parevano promozioni turistiche per visitare questo o quel paese: venite a Cuba, o in Turkmenistan, si mangia bene e ci si diverte… E poi, code a non finire, disorganizzazione, caldo asfissiante, superficialità diffusa.

Insomma: un flop di visitatori, un’occasione e tanti soldi sprecati, questi i ritornelli più frequenti che mi sentivo dire dai critici. Ma, accanto, anche altri amici che ci era tornati più volte per riuscire a vedere tutto, e che si dichiaravano entusiasti. Di alcuni di loro mi fidavo però un po’ meno, meno attenti, più superficiali. In una giornata, fortunatamente fresca, di fine luglio faccio dunque il mio ingresso trionfale all’Expo di Milano. Senza tante aspettative, ma anche senza troppi pregiudizi: un osservatore partecipante, come nei vecchi studi antropologici.

Intanto, di code all’ingresso nemmeno l’ombra. Dipende da dove si entra, mi diranno poi. Ci sono 4 o 5 entrate, e una sola è sempre piena, le altre poco frequentate. Fortuna, meglio così. Prima di arrivare al mitico Decumano, il lungo vialone dove si affacciano tutti i pavilion, si incontra il maestoso Padiglione zero, quello dell’Onu. Qualche minuto di attesa, e ci si presenta dinanzi una gigantesca biblioteca, sul modello “Il nome della rosa”, dove sono immagazzinati tutti i saperi della storia. E inizia da lì il viaggio dello sviluppo dell’alimentazione nel mondo, dai tempi del baratto fino ad arrivare, in una Borsa simulata ma collegata realmente a Wall Street, agli scambi di derrate alimentari in tempo reale. E poi filmati su filmati, seguendo gli umili protagonisti delle diverse economie alimentari di tante parti del mondo, dalla Mongolia al Gabon, dalla Nuova Guinea al Perù. Subito dopo, una enorme mappa degli sprechi di cibo nell’occidente, confrontati con le carenze del resto del pianeta. Visivamente illuminante, per gli adulti come per gli adolescenti: qualcosa che rimaneva dentro senza troppe enfasi.

Niente male, come inizio. Sul Decumano, poi, una serie infinita di padiglioni ognuno gestito da uno dei circa 150 paesi ospitati all’Expo. Alcuni belli architettonicamente, altri meno, ma tutti (o quasi) tematicamente ben centrati sul problema del cibo, dell’alimentazione, del rapporto tra cultura del luogo e l’arte o il bisogno di nutrirsi in maniera equilibrata, o quanto meno di sfamarsi con le limitate risorse in proprio possesso. E’ possibile visitarne solo qualcuno, ovviamente, in un’unica occasione, e occorre quindi tornare almeno 2-3 volte, per farsi un’idea complessiva. Ma molti dei padiglioni che ho visitato erano un semplice ma efficace ingresso nella cultura del paese, attraverso la chiave alimentare, in cui si riusciva ad essere almeno incuriositi dalle specificità locali, dai ritmi di vita alle economie legate al cibo.

Ma la cosa che più impressionava positivamente, in questo lungo vialone centrale, era l’idea che poco a poco si formava nella mente: come se tutto il mondo fosse racchiuso, in nuce, all’interno di Expo, un paese accanto all’altro in maniera casuale. Come se le mille diverse esperienze e culture fossero mischiate insieme, in una specie di torre di Babele, dove ognuno riusciva però a comunicare all’altro, allo straniero, grazie a quella chiave di lettura universale. Il problema del cibo, così simile dovunque ma nello stesso tempo così diverso e articolato nelle modalità più lontane tra loro che ci si poteva attendere. Così il bisogno di equilibrio alimentare, della Corea del Sud, sta a fianco alla comunione che si crea attorno ad un tavolo, della Santa Sede (sì, non poteva mancare…); la laboriosa e coinvolgente produzione dei datteri, dell’Oman, vicino al drammatico tema della morìa delle api, che ci condurrà alla perdizione, del padiglione dell’UK, che ci porta direttamente dentro ad un’alveare, collegati in tempo reale con l’attività degli insetti a Newcastle.

Se il problema del cibo, dell’alimentazione, è il tema principale dell’Expo, se l’obiettivo era quello di far riflettere su questo aspetto così controverso, il risultato che si proponeva pare raggiunto, benché qualcosa resti effettivamente stridente (il ristorante di McDonald ce lo potevano forse risparmiare, se non fosse uno dei maggiori sponsor…). Ma il senso del discorso si intrufola piano piano nella testa del visitatore, e quando si deve andar via, c’è un po’ di rimpianto, per non aver potuto entrare negli altri padiglioni, negli altri mondi. Infine, una nota di merito per l’organizzazione, che pare perfetta: bagni grandi e puliti, strade immacolate, nonostante le migliaia di persone, raccolte differenziate ogni 50 metri, distribuzione di acqua e oasi di refrigerio costanti lungo il percorso. Insomma: sembrerebbe una scommessa vinta, per questa Expo milanese.

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