Milano
Un monaco zen che unisce grattacieli
Sdraiato nel parco. A guardare il cielo, dove Andrea Loreni fa la sua impresa.
Da quando ho conversato con lui, mi è entrato nel cuore. E mi formicolavano le piante dei piedi. Perché sapevo che su quel cavo era a piedi nudi. Io, che bastano due sassolini a farmi saltellare come sui carboni ardenti. Io che mi sento a casa nelle scarpe robuste, sulle suole spesse. Guardavo fisso quel puntino al rallentatore, in mezzo al cielo, la terra sotto, dove noi, massa di puntini colorati, eravamo brusio di fischi, incitamenti, applausi, silenzi. Fissavo quel suo passo sincopato e guardingo, e l’arco che teneva in bilancia, che a ogni piega d’onda mi faceva immaginare la caduta. Degli dei. Perché Andrea ha fatto una cosa inutile e assoluta. Elegante e folle.
E siamo lì. Nel pratone. Un amico dice che in fondo, la cosa più auspicabile dello spettacolo, sarebbe la sua caduta, come nella morbosità degli incidenti: tutti se lo godono un po’, l’imprevisto più facile a succedere. Io propongo una versione più comica: un gabbiano, o altro uccello, che beffardo si posa sulla punta dell’asta che usa per bilanciarsi. Intanto Andrea avanza. Sarà a due terzi del cavo, dice uno dietro. Una ragazza con lui, più geometrica, risponde: tre quarti. Due bambini piccoli alle mie spalle, forse quattro anni, ripetono più volte, cantilenanti: “Andrea adesso cade…”. Alla quarta volta mi giri di scatto, e basta perché la madre si svegli e provi a sopprimerli.
Gli ultimi metri i più belli.
E quando Andrea si aggrappa alla sbarra metallica sul tetto della torre, sento dentro, qui, nel petto, una vampa di liberazione, e mi scotto le mani nell’applauso disteso, che lievita verso l’alto, fino al suo braccio fuori a salutarci. Provo orgoglio, anche se non c’entro una mazza. Provo orgoglio perché l’uomo è anche questo. Resetta, per il tempo di una fune sospesa tra due torri, tutte le miserie che alimentano in me l’orrendo sentimento del disprezzo: le viltà, gli opportunismi, gli abusi, i cameratismi, le furbizie… Come splende Andrea! E mi dirigo verso la Fondazione Catella, sapendo che Andrea sarebbe finito lì, nel dopo. Cerco intanto di tenere insieme gli amici che ho convinto, trascinato, esortato a venire a godere lo spettacolo senza scenografia né parola, il più incredibile dei copioni, il più elementare e teso dei thriller. Parte il ping pong di condivisioni di posizione, punti di riferimento scanditi al telefono, dalla nuova Stecca fighetta al gruppo di altalene sotto gli alberi, fino a quando si pattuisce per un tutti in Archinto, ci vediamo lì. E posso infilarmi nel cortile della Fondazione destinato ai giornalisti e privilegiati vari. Cibo e calici a uffa stanno ormai smantellando, ma chissene, ora ho fame d’altro, anche se la gola è secca. Mi rifarò dopo. Rimango ad aspettare che Andrea scenda da quell’ascensore infinito del palazzone Unicredit, e in camicia e pantalone morbidi attraversi il parco, salutato con sorrisi e applausi, tipo messia, ma senza alcuna predica. Solo imprese umane. Zero miracoli. Andrea sorride, metà estasi, metà incredulo: svanita ogni tensione, l’abbandono è la ricompensa. Quando è quasi all’ingresso della Fondazione, circondato, gli occhi azzurrissimi colpiti dalla raffica dei cellulari, esco dal cortile e mi paro davanti a lui: dovevo, volevo, ne ho bisogno. ‘Maurizio!’, esclama, ed è un abbraccio, stretto, qualche secondo, sussurro “Sei stato meraviglioso” e mi slaccio, per pudore, per farlo proseguire. Nel cortile della Fondazione si presta alle foto celebrative. Un monaco zen che unisce grattacieli. A piedi nudi sul filo, nella Milano ottusa dei SUV.
Ci ho pensato, stanotte, stamattina defecando, e poi all’Esselunga. A lui nel cielo e tutto il mondo fuori. E ogni volta sentivo commuovermi. Non c’è ironia che tenga.
Quando mi sono caricato quattro buste della spesa gonfie, per portarle fino a casa, dopo aver bestemmiato per posteggiare e averlo fatto lontano, mia moglie ha cercato di fermarmi: “Sei matto, sono troppo pesanti, hai una certa, non hai paura per la schiena?” Ho proseguito impavido. Andrea ha attraversato il cielo sul filo, ho detto a me stesso. La paura è vinta.
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