Finanza
Un matrimonio da manicomio: la brutta fine che farà la BPM
Per le banche il mondo diventa maledettamente più complicato giorno dopo giorno. Molte continuano a soffrire di debolezze strutturali mai curate fino in fondo, per tutte ci sono da affrontare sfide competitive complesse. C’è allora chi pensa di poter svoltare e risolvere tutti i problemi con la magica formula delle fusioni societarie: che alla prova dei fatti si sono rivelate più un vincolo di manicomio che di matrimonio.
Ad ogni modo, quella del matrimonio “fra pari”, che poi pari non sono, è la soluzione che verrà proposta ai soci della Banca Popolare di Milano e a quelli del Banco Popolare domani sabato 15 ottobre, nelle assemblee convocate rispettivamente per l’occasione a Milano e a Verona. Si tratta di una fusione fra banche popolari (cioè cooperative, anche se ancora per poco) di medie dimensioni. La prima, quella milanese, in buona salute e inserita in un tessuto economico vivo e vitale; la seconda ancora impegnata a smaltire i postumi di un’aggregazione fatta quasi dieci anni fa, con il poco invidiabile record di essere la prima banca italiana per durata della convalescenza (persino superiore a quella di Mps).
La tesi di Castagna è che l’aggregazione «produrrà molta redditività» (1 miliardo di utile nel 2019), grazie alle sinergie sui costi. È lo stesso ritornello che dalle parti di Verona, dove ha sede il Banco, si sente da anni: ma il motore fin qui gira sempre a vuoto. Le analisi sul consolidamento del settore bancario svolte in sede G-10, peraltro, sono piuttosto caute quando si parla di aggregazioni di banche di medie dimensioni. «Non è vero che sommando le due otteniamo la terza banca del paese, semmai otteniamo un problema più grande», osserva Fulvio Coltorti, docente di Storia economica all’Università Cattolica di Milano, e per decenni direttore dell’ufficio studi nella Mediobanca di Cuccia e Maranghi.
«Questa fusione mette insieme una banca gioiello, risanata dal precedente amministratore delegato (Piero Montani, ndr), con una banca che deve ancora mettersi a posto», sottolinea Coltorti. La logica è: banca buona con banca meno buona, risultato migliore. «Ma questo funziona solo se la banca buona è molto più grande dell’altra: e sulle spalle della Bpm viene caricato un peso troppo grande, da sola non ce la fa». Il Banco ha un cospicuo ammontare di crediti deteriorati (20 miliardi lordi, 14 miliardi netti al 30 giugno 2016) e rappresenta «la somma di banche con diverse vicissitudini».
Il rischio è che anziché essere il Banco ad essere risollevato, sia la BPM ad essere tirata dentro il gorgo. Del resto, sulle capacità di gestione di integrazioni complesse il top management dell’istituto veronese – da Carlo Fratta Pasini, un avvocato-banchiere in carica dal 2004, allo stesso amministratore delegato Pier Francesco Saviotti, arrivato a Verona nel 2008 dopo lo scandalo Italease – ha mostrato limiti evidenti. Al mercato come alle autorità di vigilanza, e ancora di più alle tasche dei loro azionisti. Sul piano dell’efficienza, poi, non c’è partita: sui ricavi dell’istituto milanese i costi operativi incidono per il 59%, su quelli del Banco per il 72% (dati al 30 giugno 2016).
Che si guardi la questione sul lato industriale sia da quello meramente finanziario, la sostanza non cambia. La Borsa è stata sempre scettica su questo progetto – l’unico concretamente perseguito da Castagna, un banchiere che ha sempre lavorato con le grandi imprese e non è stato in grado di capire le vere potenzialità di una banca di territorio, e che territorio.
Lo scambio è infatti percepito come ampiamente svantaggioso per la BPM, che perderà identità, centralità, non viene adeguatamente compensata sul piano del governo societario (tutto sbilanciato a favore dei veronesi) sia su quello dei concambi (agli azionisti del Banco sarà assegnato il 54,626% della nuova capogruppo, a quelli BPM il 45,374%). L’affare lo fanno i veronesi, e lo fa anche la città di Verona, visto che le principali attività del nuovo gruppo saranno concentrate nella città veneta, mentre a Milano si preannunciano ridimensionamenti. Come è stato chiaramente fatto intendere agli investitori internazionali. E i dipendenti rischiano di essere come il tacchino a Natale.
Eppure nonostante questa evidenze che dovrebbero mettere d’accordo tanto gli investitori di capitale quanto i soci-dipendenti, la probabilità che l’operazione passi è elevata. La deliberazione avverrà con voto capitario, cioè una testa un voto: sarà l’ultima volta, visto che automaticamente scatterà la trasformazione da cooperativa in società per azioni, richiesta dalla riforma Renzi. Solo se non dovesse passare la fusione, si dovrà tornare in assemblea entro dicembre e votare la trasformazione in S.p.A. da “single” e poi aprire un nuovo capitolo.
Uno scenario questo che Castagna e i sindacati nazionali (Fabi, Fisac-Cgil, Uilca, ecc.) dipingono come un incubo. Consapevoli che venendo meno l’ipotesi di una mortificante fusione con il Banco il titolo BPM risalirebbe, hanno infatti paventato il rischio di scalata e di perdita delle tutele occupazionali per i dipendenti. In realtà, è vero l’esatto contrario se la banca milanese resta autonoma o diventa capofila di aggregazioni più gestibili.
Ma Castagna e i vertici delle varie sigle sindacali non hanno tralasciato nulla pur di intruppare i dipendenti e portarli a votare sì nell’assemblea di sabato 15: pressioni in tutte le sedi, rimborsi spese per chi arriva da lontano (messi a disposizione di tutti gli altri soci solo all’ultimo momento, con evidente disparità di trattamento) e accordi sindacali pensati per vincere le contrarietà dei dipendenti e accompagnare le uscite di personale.
L’appoggio dei sindacati è probabilmente l’anticipo di uno scambio politico con il Governo. Quando ci saranno da negoziare gli ammortizzatori sociali per tutto il settore bancario, in cui per la prima volta si comincia a parlare di licenziamenti collettivi, aver aiutato a portare a termine la fusione BPM-Banco, sulla quale si gioca la credibilità della riforma delle banche popolari, sarà indubbiamente un titolo di merito da mettere sul tavolo. Peccato che a pagarlo siano gli azionisti e i dipendenti della BPM e la città di Milano.
Il blocco dei contrari include i pensionati (Patto per Bpm e Associazione Lisippo) come pure parte dei soci non dipendenti, mentre è noto che Piero Lonardi, storico esponente dei soci esterni, si esprimerà a favore e potrebbe arrivare a trascinare con sé un migliaio di soci. L’esito dell’assemblea dipenderà molto dal numero dei presenti: sulla carta sono attesi oltre 12mila soci, in proprio o per delega; per essere approvata la fusione deve avere i due terzi dei voti. A condizionare la libertà dei dipendenti potrebbe essere però anche il sistema di voto adottato, potenzialmente atto a scoraggiare i voti contrari.
I giochi sono comunque aperti e quel che è certo è che in una fredda mattina di metà ottobre Milano potrebbe perdere un’istituzione che ne ha accompagnato l’impetuosa crescita e affermazione negli ultimi 150 anni, e che gode tuttora di buona salute. Sarebbe un epilogo inglorioso e autolesionistico per la Banca Popolare di Milano. Tanto più paradossale perché avviene in un momento in cui la metropoli vive un momento di felice dinamismo sociale ed economico. Un epilogo non privo di amara ironia visto che a posare la lapide sulla storia della banca milanese sarebbero proprio quelle delle forze sociali, dipendenti e sindacati, che nel passato hanno fatto dell’istituto di Piazza Meda un unicum – sia pure non privo di limiti né al riparo da errori – nella storia economico-sociale dell’Italia dall’Unità a oggi.
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