Lavoro
Ufficio vs Smartworking. Il milanese resta imbruttito?
Andare in ufficio negli orari comandati, intasare i mezzi pubblici nelle ore di punta, i supermercati la sera dopo il lavoro, le autostrade nei weekend, gli aerei durante la settimana per le riunioni in trasferta. Contendersi baby e dog sitter con altri lavoratori.
Prendere permessi e giorni di ferie per un impegno domestico o impedimento fisico che precluda la possibilità di recarsi fisicamente in ufficio, ma che non precluderebbe affatto la possibilità di lavorare.
Ad esempio, l’idraulico che deve riparare una perdita nel bagno di casa comporta un’assenza dall’ufficio, quindi la perdita di ore di lavoro. Non comporta affatto l’impossibilità di lavorare da casa, mentre nell’altra stanza l’artigiano fa il suo lavoro.
Una slogatura alla caviglia che impedisca la deambulazione comporta l’impossibilità di recarsi fisicamente in ufficio, quindi la necessità di prendere un permesso per malattia e perdere giornate di lavoro, mentre il lavoratore, pur con difficoltà deambulatoria, avrebbe la possibilità di restare a casa, sedersi davanti al proprio Pc e lavorare senza perdere nulla in produttività.
L’impossibilità di organizzare i tempi di vita, a causa dell’obbligo di presenza e timbratura del cartellino, comporta inefficienze non solo nella conciliazione lavoro-famiglia ma anche nella razionalizzazione del rapporto lavoro-lavoro: la presenza coatta in ufficio, continuativa nelle ore comandate, comporta inefficienze, tempi morti, cadute di produttività, quindi costi per il sistema produttivo generale.
I trasferimenti quotidiani casa-ufficio, aggravati dalle occasionali condizioni meteo avverse (piogge torrenziali, caldo afoso, ghiaccio…), determinano costi ambientali e di salute individuale, che gravano sul sistema sanitario. Lo stress da trasferimento non è un danno solo per il lavoratore, è un costo per la collettività, e l’impatto in termini di cura per patologie da stress, incidenti sul tragitto casa-lavoro, emissioni inquinanti va calcolato tra gli oneri dovuti ad un sistema produttivo basato sul lavoro fisso in ufficio, invece che su una modalità ragionata, concordata, regolata di Smartworking.
Il Pil basato sull’economia dei buoni pasto, i pranzetti alla tavola calda, le macchinette del pessimo caffè in ufficio, sui biglietti dell’autobus e la benzina ha un impatto diretto sulla finanza pubblica. Il ritorno alla “normalità” dell’organizzazione pre-tecnologica del lavoro basata sulla presenza in ufficio invece che su obiettivi conseguibili indipendentemente dal luogo e dalla modalità di lavoro, deve essere motivato, da chi lo caldeggia, in funzione di tutti i costi che determina e non solo dei benefici economici per una parte marginale del mondo produttivo che sono gli esercizi commerciali funzionali all’organizzazione del lavoro stanziale.
Lavorare in Smartworking non significa non spendere, ma spendere diversamente. Non significa non lavorare, ma lavorare senza subire limitazioni non-necessarie e vessatorie. Non c’è nessuna legge economica che prescriva l’imbruttimento della persona che lavora, che la costringa a comportamenti da gregge, né che associ il lavoro subordinato a una condizione per sua natura di privazione della libertà.
Gli argomenti utilizzati dagli scettici dello Smartworking, inoltre, violano il tanto sbandierato principio di “resilienza” sul quale, pure, si basano negli ultimi anni gli orizzonti delle politiche pubbliche. La “normalità” alla quale si vorrebbe tornare a Milano è una normalità inefficiente, conservatrice, inadeguata alla realtà permeata di tecnologia digitale che ha già cambiato tutti gli aspetti della dimensione umana, individuale, produttiva e sociale. Ci si può opporre al cambiamento già avvenuto?
Una riflessione dozzinale “cartellino in ufficio vs Smartworking” non giova a nessuno. Giova ancora meno tornare al “dove eravamo rimasti” dopo che milioni di persone hanno potuto sperimentare una modalità produttiva efficiente per tutti e rispettosa per sé.
Le resistenze psicologiche del lavoratore che, dopo essere stato “smart” è costretto a regredire all’idiozia del cartellino, avrà un impatto inevitabile sulla motivazione e, quindi, sulla produttività. E’ stato calcolato questo costo? Si pensa davvero che si possa tornare alla “normalità” di prima, come nulla nel frattempo fosse stato?
Qualcuno sostiene che il milanese – quello di nascita? quello di adozione? – sia per natura così, vuole andare in ufficio, fare l’ape dopo l’ufficio, fare la spesa dopo l’ape, mettersi in coda al casello nei weekend. Sarà! Si moltiplicano tuttavia le iniziative per normalizzare il lavoro a distanza, anche vivendo altrove rispetto alla costosa, frenetica, poco conciliante città. Si può lavorare con Milano senza necessariamente dover vivere a Milano. Che diventare milanese sia una scelta, non un obolo da pagare se si vuole lavorare. Per tutti gli altri c’è il Southworking.
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