Milano

Tsunami povertà su Milano: «Qui peggio che nel 2008»

6 Aprile 2020

Il macellaio che “adotta” 7 tigri, i Rom che fanno la colletta, Comune e associazioni che lavorano 24 ore su 24: tutti impegnati ad aiutare chi, dopo il lockdown, è rimasto senza lavoro e senza soldi. Ma restano buchi neri: in baracche e altri insediamenti informali, lontano dai radar delle istituzioni, si fa strada la fame e rischiano di scoppiare nuovi focolai di contagio

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«Abbiamo le tigri, noi. Quante? Sette. Ma loro sono a posto, ci aiuta un macellaio…», mi spiega Rossella Canestrelli, una delle anime del circo Arbell, cento anni di storia gloriosa alle spalle e un presente piuttosto complicato. Ci sentiamo al telefono: raggiungerla in macchina, a piazzale Cuoco, a Milano, non sarebbe neppure troppo complicato, in tempi normali. Ma questi non sono tempi normali, neppure per giornalisti e circensi.

Il circo Arbell, prima sempre in tournée, ora è fermo da più di un mese. «L’ultimo spettacolo è stato il 16 febbraio, poi c’è stato il primo caso di Coronavirus e siamo rimasti bloccati qua», mi spiega. Niente lavoro, niente incassi, il tempo che passa, i risparmi che evaporano. I trenta uomini e donne che lavorano al Circo Arbell, alla fine sono stati costretti, a chiedere aiuto: «Qui con noi ci sono anche quattro bambini, ci sentiamo come in un tunnel e non riusciamo ad uscire. Non chiediamo soldi e mai li abbiamo chiesti. Noi chiediamo viveri», mi dice sempre Rossella Canestrelli, parlando a nome di tutti.

Croce Rossa, Ronda della Carità, Caritas e Comune, per fortuna, glieli hanno portati. L’ultimo pacco è arrivato venerdì, ma erano dodici giorni che non arrivava nulla: Rossella aveva tenuto, preoccupata, il conto.

Niente selfie per chi ha il frigo vuoto

Il circo, le tigri, la paura di non avere i soldi per comprarsi neppure da mangiare. Metto giù il telefono. Quella parola, “viveri”, io in quindici anni di mestiere in Pianura Padana, uno delle regioni più ricche d’Europa, non l’avevo sentita mai, in bocca a nessuno.

Lo spettacolo del circo Arbell

Sembra tutto irreale, anche a me che lo scrivo. Non è così.

Chiamo Luciano Gualzetti, il direttore della Caritas di Milano, che mi fa capire che questa è solo l’altra faccia di Milano nei giorni del virus. C’è chi ha svuotato gli scaffali del supermercato lasciando solo penne lisce: e di queste immagini sono pieni i social ed è intasato il web. E poi c’è chi invece il frigo ce l’ha vuoto: solo che questi mica si fanno i selfie con i ripiani vuoti alle spalle; la povertà è poco fotogenica. Ma queste persone ci sono e sono sempre di più. «Le domande di chi ci chiede un aiuto per mangiare sono aumentate del 50%. Sarà da vedere se saremo ancora in grado di reggere e dare una mano a tutti per molto tempo. Le risorse sono sempre le stesse e le dobbiamo condividere con gli anziani che non vengono più a ritirare il pacco viveri, piuttosto che le famiglie povere che hanno reddito a sufficienza, i nostri empori solidali…», mi dice Gualzetti.

Il virus complica tutto, anche aiutare

Alcune associazioni, a Milano, sono state costrette a sospendere le loro attività: troppo complicato, per alcuni, tenere aperto ad esempio i centri diurni, garantendo distanze giuste e la salute dei volontari e di chi veniva a chiedere aiuto. Ma la Caritas Ambrosiana non ha arretrato di un millimetro.

Non è stato affatto semplice, a partire dalle mascherine, una vera e propria emergenza nell’emergenza, per tutti, in Italia. «Il primo carico è arrivato ieri (mercoledì scorso, per chi legge, ndr) grazie ai cattolici cinesi, dopo un mese e mezzo che le cerchiamo. Le ordinavamo e quando le avevamo recuperate, ce le hanno sequestrate o dalla Protezione civile o gli altri paesi (in cui passavano per arrivare in Italia, ndr). Chi è sul fronte sono i sanitari, ma possibile che io debba tenere aperto un servizio e non possa dare le mascherine agli operatori che poi hanno a casa bambini, anziani…», mi racconta Gualzetti. E dalla cornetta del telefono sento distintamente non solo i rumori della sua auto in movimento ma anche una certa irritazione.

Sento anche fatica, tanta, da parte di chi sta lanciando da giorni ormai un vero e proprio grido d’allarme: «Stiamo denunciando da settimane che dentro l’emergenza sanitaria stava montando una crisi sociale che rischia di essere più grave di quella che è scoppiata nel 2008 a causa della bolla finanziaria del mutui sub-prime», dice il direttore della Caritas Ambrosiana.

Caritas che è preoccupata perché questo tsunami di persone in difficoltà lo sta come prendendo tutto e di petto: «Abbiamo 380 centri di ascolto e mille parrocchie nella diocesi. Per questa presenza capillare sul territorio, diventiamo quasi i primi ad essere interpellati e ti senti in dovere di intervenire, e lo fai come puoi», dice sempre Gualzetti. Si sono fatti avanti un po’ tutti: i circensi come i giostrai; le donne delle pulizie a nero come i conducenti di auto a noleggio che non hanno più nessuno da condurre da nessuna parte, tanto tutti devono restare a casa.

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I nuovi poveri

Per cercare di parare il colpo, la Caritas di Milano ha anche dato vita ad un fondo che si chiama San Giuseppe, come il patrono dei lavoratori. Serve a chi non riesce più ad arrivare a fine del mese: si va dai 400 agli 800 euro d’aiuto. I primi beneficiari sono stati un muratore, una calzolaia, una parrucchiera a domicilio: persone che avevano una vita normale fino ieri e che rischiano di diventare i nuovi poveri di domani. «Ora non puoi risolvere problemi accumulati in 30 anni, però sta di fatto che questa situazione li fa riemergere in maniera drammatica: il lavoro sommerso, la gente precaria, senza diritti e senza tutele. Tutto questo si avverte molto di più. E dobbiamo tutti renderci conto che una società che si basa solo sull’individualismo, sulla capacità del singolo di farcela e per chi non ce la fa, un po’ di beneficienza – ecco – questa cosa non sta in piedi. Le conseguenze sociali di questo stop, impoverimento, perdita di lavoro, dovremo affrontarle per i prossimi due o tre anni. Questo è un problema di tutta la collettività. Gli ultimi vorremo che non ci fossero. Anche Caritas, lo vorrebbe. Ma perché non ci siano, tutti si devono prendere il loro pezzettino di responsabilità», dice Gualzetti.

C’è fame a Milano?

E’ ormai mezz’ora che parlo con lui al telefono e capisco che il tempo a mia disposizione sta per finire. Non resisto, però, alla tentazione di un’altra domanda. Gliela faccio: ha senso parlare di fame, oggi, in una città come Milano? «Sta a tutti drizzare le antenna, ma un punto dove trovare cibo anche il senza fissa dimora lo trova. Il problema sono gli anziani che non possono uscire e magari non osano chiedere aiuto o non sanno dove chiedere aiuto», mi risponde Gualzetti. Se qualcuno è rimasto indietro, insomma, è successo tra gli invisibili, quelli cioè che per una ragione o per un’altra non appaiono o non vogliono apparire ai radar delle istituzioni.

I buchi neri

Tra chi cerca questi invisibili c’è Cesare Mariani, che opera come volontario di una associazione che si chiama Naga. Il Naga normalmente offre assistenza giuridica e sanitaria ai migranti. Ma la scorsa settimana ha portato anche pacchi alimentari a famiglie che vivono, a Milano, in stabili occupati: ex uffici, ex bagni termali, ma anche  appartamenti. «Abbiamo distribuito pane, panna da cucina, pandori: insomma tutta roba confezionata che si poteva mangiare anche senza bisogno di cucinare. E’ stata la prima volta che abbiamo fatto una cosa di questo genere: non fa parte dei nostri servizi e poi solitamente il cibo è un bene a cui raramente, a Milano, non si ha accesso. E invece…».

E invece, questa volta, spiega il volontario del Naga, è stato necessario: «Chi sono queste persone a cui abbiamo portato cibo? La maggior parte sono migranti. Molti hanno permesso di soggiorno, ma il loro problema è che fanno lavoretti precari che bastano giusto alla sussistenza, lavoretti che al momento non possono fare. Settimana scorsa la situazione era veramente emergenziale».

Il Naga ha già segnalato queste persone al Comune che si è già attivato.  «Poi rimane un grosso buco nero in città che sono i cosiddetti campi informali», dice Mariani.

La copertina del report di Naga sugli insediamenti informali

Gli insediamenti informali sono capannoni industriali, magazzini delle Ferrovie, edifici mai finiti, aree di cantiere abbandonate e qualunque altro posto da cui si possa ricavare un alloggio di fortuna. Proprio il Naga a Milano ha cercato di mapparli scoprendo che dentro ci abitavano anche, in alcuni casi, i lavoratori poveri della città: migranti, con tanto di permesso di soggiorno in molti casi, che facevano i muratori, distribuivano i volantini o pedalavano come rider per portare il cibo con quelle consegne a domicilio che prima erano comode e oggi permettono a tanti di stare a casa, come ripete in maniera martellante la televisione. A casa e soprattutto al sicuro.

Questi campi sono nascosti in luoghi quasi introvabili, dice Mariani: «Sono insediamenti micro, mai più di quindici persone e sono mobilissimi. Abbiamo avuto persone che ci hanno mandato degli sos al telefono e però, in questo caso, la difficoltà è farli accedere al servizio del Comune. Bisogna capire come fare. Per ora, però, non abbiamo trovato soluzione». La questione più grossa, lì, non è tanto il cibo. E’ che esplodano nuovi focolai. «La gente che ci ha contattato per telefono o è arrivata al nostro ambulatorio ci ha segnalato il fatto che il problema grosso, ancora più impellente di quello di aver i soldi per compare da mangiare, era quello dell’acqua, avere acqua. Lì le condizioni potrebbero rischiare di degenerare…», mi spiega con preoccupazione il volontario del Naga.

La colletta dei Rom

«Altro gruppo, oggi, molto in difficoltà sono i rom che vivono magari di sgombero cantine o vendita al mercatino che da settimane non lavorano neanche loro», mi dice sempre Mariani. Gli chiedo se posso parlare con qualcuno di loro e il volontario del Naga mi gira il contatto di Bogdan che ha una storia, la sua, da raccontare.

Bogdan lavorava nella sicurezza di una sala slot: «Ho lavorato per otto mesi senza contratto. Poi, con l’emergenza, hanno chiuso. Ho tre bambini, il più piccolo ha tre anni…», mi spiega. Bogdan, però, non si è perso d’animo. Qualche soldo da parte lui ce l’aveva. E così si è preoccupato degli altri: «Dalla mia pagina Facebook ho fatto appello a tutti i Rom perché ciascuno donasse qualcosa per aiutare alcune famiglie più in difficoltà, che lavoravano in un mercatino dell’usato». Hanno comprato cibo, lo hanno distribuito. «Noi non siamo ladri e bla bla bla, come certi dicono. I ladri non hanno bisogno di aiuto. Noi vogliamo essere integrati in una società come si deve», mi dice Bogdan. Che prima di chiudere quella che per me era l’ultima telefonata per questa inchiesta, vuole assolutamente aggiungere una cosa: “Voglio fare un appello a tutti: rispettiamo le regole e stiamo in casa fino a che è passata questa situazione brutta. Lo scriva”. Hai ragione Bogdan, lo scrivo: da soli, stavolta, non se ne esce, ognuno deve fare la sua parte. Proprio come hai fatto tu.

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(in copertina: i volontari di Naga al lavoro)

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