Milano
Tra Storia e Memoria
Scritto in collaborazione con Federica Cecco
«La memoria ha sempre a che fare con una sorta di abbaglio, di pietà, di raccoglimento.
La storia invece, appartiene alle epoche senza illusioni, è laica e profana.»Georges Bensoussan – L’eredità di Auschwitz. Come ricordare? – Einaudi 2002, p. 93.
Daniela – Siamo abituati a pensare che i nostri ricordi possano essere immagazzinati nella nostra memoria quasi nello stesso modo in cui li archiviamo in un computer: una volta salvata l’informazione, possiamo “ripescarla” semplicemente andando a leggere un dato fisico.
In realtà, la psicologia ha dimostrato che non è proprio così; per semplicità, pensiamo ad una memoria dichiarativa, quella che ci occorre quando dobbiamo memorizzare e poi richiamare alla memoria qualcosa. Ebbene, la nostra memoria si basa su complesse strutture biologiche, su scambi tra cellule che si reggono su delicati equilibri, in alcuni casi – a quanto pare – stocastici, ossia con una componente casuale.
Se volessimo usare una metafora per descrivere un ricordo impresso nella nostra memoria – allo stato della conoscenza attuale – potremmo usare quello dell’impronta impressa da un oggetto sulla sabbia: il medesimo oggetto disegna una forma diversa, a seconda delle condizioni pre-esistenti in cui si trova la sabbia; questa impronta si chiama engramma. L’agire del tempo poi, e del vento, e dell’acqua potrà arricchire o affievolire l’impronta, ma di certo non lasciarla uguale.
La fallacia della memoria è spesso inconsapevole: a volte bastano le parole usate per formulare la domanda che qualcuno ci pone a modificare l’engramma. Questo fenomeno è stato studiato, ad esempio, nell’ambito delle testimonianze processuali; oppure sono lo stress e le forti emozioni che proviamo – mentre vorremmo accedere a un certo ricordo – a modificarlo; o, ancora, alcuni dettagli che ci vengono forniti in tempi successivi alla memorizzazione, i quali si intrecciano inestricabilmente al nostro engramma, formando, di fatto, un nuovo avvenimento: in ambito sperimentale, si è riusciti a creare anche casi di ricordi completamente “inventati” o “suggestionati”. È per questo che è ancora più importante che la memoria sia collettiva, che ci sia un processo di condivisione e scambio; è importante per tutti arrivare ad una elaborazione dinamica, ma pulita, chiara e condivisa.
La memoria individuale può anche consolidarsi però, attraverso una serie di stimoli costanti: la comunicazione tra le sinapsi coinvolte nell’engramma diventa allora un percorso privilegiato, che come un sentiero di montagna ha bisogno di essere percorso spesso per non scomparire.
La memoria individuale è alimento per quella collettiva, ne fa parte e ne ha bisogno per non disperdersi.
«Infine, la storia di un fatto accaduto a più persone contemporaneamente, può risentire delle narrazioni altrui. In questo ambito agiscono numerosi fenomeni legati al confronto collettivo quali l’adeguamento e gli stereotipi, nonché fenomeni di trasformazione legati alla caratteristica della memoria di essere essenzialmente un processo ricostruttivo»
Aaron Baddeley, 1992
Federica – Martedì 24 novembre ore 19.00, teatro dell’Elfo, Milano. Incontro Daniela, entriamo in Foyer: il nostro spettacolo è A D U L T O, degli Phoebe Zeitgheist. Lei ha bisogno di una minerale e ci dirigiamo verso il bar: mi cattura subito l’immagine di una signora anziana seduta da sola che avidamente si gusta una cioccolata in tazza. È così antica e infantile nella sua postura e nella sua golosità.
Alza lo sguardo e siamo già lì, sedute con lei. È magnetica. Due occhi azzurri vivaci e attenti parlano di quante storie non posso conoscere, con 60 anni in meno di vita vissuta. Classe 1929, liceo Moreschi…aspetta…è la scuola di mio nonno! Stupidamente le chiedo se si ricorda di un certo Ballarino. Ma non ho fatto bene i calcoli, mio nonno era del 1915. All’epoca in cui lei frequentava il liceo, lui era già abbastanza grande per fare il protagonista della Storia, ed essere prigioniero di guerra in Albania.
Lei ha voglia di depositare la memoria di qualcosa d’importante, la sensazione che non sia venuta solo ad assistere ad uno spettacolo teatrale è palpabile. So che quella sera va in scena anche Gorla fermata Gorla, uno spettacolo che racconta di una strage avvenuta a Milano durante la seconda Guerra Mondiale.
So e non so. Gorla mi riporta ad un sentimento tragico, come se me ne avessero parlato tanti anni fa, ma in realtà non sono a conoscenza precisamente dei fatti. È una ferita antica e dimenticata della mia città sempre apparentemente proiettata verso la modernità.
Lei ha addosso come un peso da donare sotto forma di fiore. Come se quella sera il caso che tutto governa avesse deciso che proprio noi dovessimo ascoltare la sua storia nella Storia.
È una sensazione che ho provato spesso in compagnia di chi ha vissuto e sa che non potrà farlo ancora a lungo: li spinge una necessità quasi fisiologica di passare il testimone, di far sì che quell’esperienza che ha segnato irrimediabilmente il loro modo di vivere possa arrivare a colpire un corpo giovane. Ripetono quel racconto ogni volta che possono, come se fosse la prima volta che affiorasse alle loro labbra, che da ricordo si trasformasse in parola.
Siamo state scelte dal caso e con gioia stiamo insieme in questa memoria da condividere.
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«Il bisogno di trasmettere è legato a quello di capire: la salvaguardia della memoria allora ci appare come un dovere civico.»
Georges Bensoussan – L’eredità di Auschwitz. Come ricordare? – Einaudi 2002, p. 6
Daniela – Ci siamo guardate e abbiamo sentito l’esigenza di fare qualcosa, di iniziare una raccolta di memorie di guerra che potesse essere più inclusiva, che non escludesse o differenziasse la sofferenza che la violenza dell’uomo sull’uomo comporta.
I reduci della Shoah stanno morendo. Gli anziani che abitano silenziosamente le nostre città, non avranno presto più la forza per ricordare il loro punto di vista e incontrare qualche giovane orecchio disposto a trascrivere le loro parole. Potremo essere partecipi solo di ricostruzioni ufficiali, statiche, unilaterali. Non si tratterà mai più di un dialogo. Non ci sarà più spazio per nuove domande, per i dettagli, le sensazioni e le emozioni.
Alcune persone, dopo aver attraversato esperienze intense, sono in grado di donare quello che di universale quell’esperienza contiene, in modo che l’umanità intera possa beneficiarne. È allora che il cammino di qualcuno può diventare un sentiero percorribile da ognuno di noi. Le metafore sono tante: un filo che ci unisce tutti; una fiaccola da tenere sempre accesa… Metafore che rappresentano un diritto/dovere che dovrebbe essere fondamentale per degli esseri umani, ossia quello di avere la certezza di far parte della storia e dell’umanità e quindi di essere carne viva, cuore pulsante che chiede uno spazio per poter confrontare il proprio vissuto con quello dell’altro, nonché con la Storia e la Memoria.
Federica – Allora ci siamo chieste: perché non creare un laboratorio teatrale permanente, in cui possano essere condivise le memorie di guerra e attraverso cui le tante storie che anche oggi restano sommerse, ad esempio le tragedie dei profughi che attraversano il nostro continente, possano trovare una casa, un altro corpo dove essere depositate?
Una sorta di territorio di contaminazione dove anche il silenzio può diventare richiesta di ascolto e non mera indifferenza o isolamento. Dove il vissuto del singolo può diventare memoria collettiva, pelle in ricerca di metamorfosi.
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Daniela – Non è facile descrivere a parole perché il teatro ci sembri il luogo adatto per lavorare sulla memoria, ma possiamo provarci: anche nel teatro c’è una componente casuale, per così dire. Ogni sera. Ogni replica è a sé stante e si basa su equilibri delicati e sottili: il pubblico è differente, e quindi il rapporto con gli attori è differente; lo stato degli attori cambia, per le loro circostanze personali; se è il luogo a cambiare, cambia anche la tipologia della performance. Il teatro, e l’arte teatrale in genere, si basa sulla ricostruzione di una forma in qualche modo nota, ma sempre nuova, e di cui – tranne rare eccezioni – non rimane traccia, se non appunto nella memoria di chi ha partecipato all’evento. E poi, di fatto, il teatro ci ha incantate.
«Ma i nostri ricordi vivono in noi come ricordi collettivi, e ci sono rammentati dagli altri, anche quando si tratta di avvenimenti in cui siamo stati coinvolti solo noi, e di oggetti che solo noi abbiamo visto. Il fatto è che, in realtà, non siamo mai soli.
Non è necessario che altri siano presenti, che si distinguano materialmente da noi: perché ciascuno di noi porta sempre con sé e dentro di sé una quantità di persone distinte.»Maurice Halbwachs – La memoria collettiva – Unicopli 2001, p. 80.
Federica – Luce. Cerco di attivare la mia mente. Ogni giorno mi sveglio e cerco di recuperare il filo: il mio nome, la mia voglia di vivere, le mie sensazioni.
È inverno. Apro gli occhi e inizio, come tutti, a ripetere una serie di gesti automatici, “normali”: sollevo il piumino ed esco dal letto, rabbrividisco per il freddo, oppure resisto stoicamente, non sento la differenza fra dentro e fuori, a seconda dei casi e dell’umore.
Poi vado verso il bagno, ed ecco, lo specchio. Chi sono io oggi? Non c’è tempo per chiederselo – non sempre si ha la forza di guardarsi fino in fondo – ed è già arrivato il momento di uscire ed essere coerenti con se stessi in mezzo al mondo. Altri milioni di individui che forse come me non hanno avuto tempo di farsi la domanda sul perché proprio qui ed ora i loro atomi partecipino dell’energia dell’universo, si avviano a riprodurre la propria immagine per le vie della città.
Non c’è proprio niente di interessante nei nostri risvegli? O forse è proprio quel niente che ci rende attivi, vivi nel presente? Quel niente che rappresenta la moltitudine di informazioni ed esperienze che diamo per scontate – le nostre vite accadute e consolidate nel passato –, il niente delle abitudini, di quei gesti così insignificanti che se vengono negati causano un enorme scandalo. Non avere l’acqua calda in casa per una doccia, dover leggere al lume di candela per un blackout, la zuccheriera vuota che lascia orfano il caffè, il buco nella calza.
Potessimo vivere più a lungo in questo disequilibrio fra la nostra routine e l’inaspettato, scopriremmo il valore di quel niente. Sosteremmo sul filo di un mondo parallelo che viveva quotidianamente affrontando quella fatica in più, la fatica di osservare, comprendere e ricucire gli strappi con le proprie mani. Ma oggi possiamo facilmente far riparare, sostituire, ripartire, comprare: il fatto strano viene riassorbito velocemente nella norma.
Ognuno di questi niente – gas ed elettricità nelle case, zucchero e caffè in tavola, indumenti alla moda che, volenti o nolenti, non durano più di una stagione – ha un grandioso passato di novità, di futuri possibili e di storia alle spalle: conquistatori che hanno scoperto nuove terre, inventori che hanno rivoluzionato il mondo, e persone comuni che hanno aderito piano piano, lentamente, al cambiamento che questi pionieri hanno avviato. Ma noi dimentichiamo il niente. Veniamo scossi quando il niente si fa presente e cerchiamo di evitarlo. Siamo di corsa e non vediamo gli atomi di carne ed ossa che chiedono una moneta per sopravvivere ad ogni angolo di via – non sempre si ha la forza di guardare fino in fondo – siamo abili alibi.
Quando ad un uomo viene negata una casa, un abbigliamento adeguato, un minimo di igiene personale, la protezione da fame, freddo e povertà – beni che per noi sono sicuri e rappresentano un grosso niente di abitudini – noi preferiamo restare ciechi. Preferiamo continuare a dimenticare che il nostro niente è un consolidato tutto, l’espressione dell’evoluzione della storia umana.
Ci manca la volontà di ricordare, di guardare quello specchio, di considerare il nostro essere niente, la forza di riconoscere l’essere umano come la forma di vita più consapevole del proprio appartenere al tempo e allo spazio. Pur di fuggire questa consapevolezza, ossia quella della nostra finitudine, decidiamo di non sentire il sangue vibrare nelle vene dell’altro, mettendo a rischio anche la possibilità di continuare a restare in contatto con le nostre stesse vene.
Dimenticando un niente dopo l’altro, viviamo sovrastati da tutto, come già morti, senza luce. E forse, presto, ci abitueremo a non essere più risvegliati.
«La memoria istituzionalizzata è ben diversa dalla memoria viva, che è ribellione e messa in guardia dei poteri costituiti e dai comportamenti gregari»
Georges Bensoussan – L’eredità di Auschwitz. Come ricordare? – Einaudi 2002, p. 113.
Federica – Non per accomunare o fare semplicistici parallelismi, ma per dare ad ogni evento storico il proprio spessore abbiamo bisogno di una memoria attiva e viva, di incontri fra testimoni, di libri di storia precisi e continuamente studiati e riletti, di un lavoro costante di responsabilità nei confronti del nostro essere umani e quindi parte del problema, parte del male mondo.
«Mentre i mostri ci rassicurano e ci confortano nella nostra normalità, gli uomini comuni, al contrario, ci inquietano»
Georges Bensoussan – L’eredità di Auschwitz. Come ricordare? – Einaudi 2002, p. 46
Daniela – La guerra in Siria ha cominciato ad essere reale, per me, quando ha preso il volto e il nome di una persona incontrata per caso su facebook: allora so, adesso, che ad Aleppo in inverno nevica; che ancora si bombarda; che vengono colpiti gli ospedali e che la gente ancora fugge.
Le famiglie che restano sono come le nostre, cercano di vivere allo stesso modo, anche se affrontano problemi diversi, più grandi. Si cerca ancora di donare ai bambini qualche giocattolo, per vivere un’infanzia “normale”; si coccolano i gatti; si festeggia; ci si sposa, anche. La distruzione e la morte fanno parte della vita, ma non riescono ad oscurarla.
Le famiglie che partono le vediamo spesso nei telegiornali, e di loro non sappiamo come occuparci. A volte, però, i fili della memoria si riallacciano: è accaduto a Milano – dal giugno del 2015, fino circa a novembre 2015 – quando nel Memoriale della Shoah sono stati collocati 30 posti letto, per ospitare alcuni profughi siriani, costretti ad accamparsi in Stazione Centrale. In quei mesi, sono stati accolti circa 4700 profughi, anche di altre nazionalità, in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio.
La memoria di un popolo ferito ha abbracciato il presente di un popolo travagliato.
«Alla società di massa corrisponde un ordine massificato. Su questa solitudine compatta che aggrega, senza creare vera comunicazione, così tanti individui estranei a se stessi e agli altri, prospera un potere che decide delle nostre vite e i cui tentacoli soffocano la nostra esistenza.
L’Europa invoca l’insegnamento della Shoah e nello stesso tempo vuole evitarlo. Al ritornello secondo il quale il passato chiarisce il presente, bisogna aggiungere, fondamento di una politica della trasmissione, che il presente chiarisce il passato.»Georges Bensoussan – L’eredità d Auschwitz. Come ricordare? – Einaudi 2002, p. 99.
In copertina: Opera di Barthélémy Toguo, esposta alla Biennale Arte 2015. Foto di Federica Cecco
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