Milano
Tra record e catastrofi, torniamo “Milanoseri”
La tragedia di Ramy a Milano accende il dibattito sulla città, oscillante tra primati di qualità della vita e crescenti disuguaglianze. Il costo della vita erode inclusività e attrattività, ma la politica sembra inerte. Serve visione per una Milano sostenibile e competitiva.
L’immane tragedia di Ramy, il ragazzo morto a Corvetto mentre sfuggiva a un lungo inseguimento delle forze dell’ordine chiude un mese in cui Milano è stata particolarmente sull’ottovolante mediatica, con effetti di fortissima polarizzazione.
Per i “Milanottimisti” è stato il mese in cui Milano è stata incoronata prima città in Italia per qualità della vita, quelle classifiche un po’ alla Trilussa in cui di solito vincono città carine in cui la maggioranza delle persone è stata al massimo per un fine settimana e non andrebbe mai a vivere. Invece no, Milano si è portata a casa anche questo primato.
Dall’altro lato, i “Milanocritici” hanno giustamente stigmatizzato l’inciucio del Salvamilano come epitome di un modello di sviluppo insostenibile dal quale non si ha alcuna intenzione di recedere, e che anzi diventa discutibile paradigma di un nuovo modo, frettoloso e furbastro, di calare le braghe al mercato.
I “Milanocatastrofisti” poi, hanno evocato per la tragedia di Ramy lo spettro francese delle banlieue, sacche ingovernabili di disagio sociale che diventa rabbia per l’esclusione nella città che corre verso i ricchi e in cui la sicurezza è diventata un tema.
Io mi iscrivo a una categoria forse poco appariscente, ma credo assai meneghina, dei “Milanoseri” che, per indole, formazione ed età non si ritrovano nelle tinte forti da telenovela sudamericana della polarizzazione tra splendore e schifo, ma cercano di guardare alle cose, possibilmente in tre dimensioni e con un occhio più lungo della durata di un post sui social. Magari non ci riescono, ma ci provano.
Cosa vediamo, noi aspiranti Milanoseri? Innanzitutto molti toni di un grigio da Milano d’inverno.
Milano non è una casbah, né tantomeno una città in declino (in un Paese che invece strutturalmente lo è), ma ha sicuramente perso smalto e soprattutto quella carica riformista che ne aveva accompagnato il balzo post Expo, con l’ottimismo di tenere insieme la capra della crescita e i cavoli dell’inclusività.
Invece, la capra della crescita si è mangiata i tavoli dell’inclusività, fino alle radici: Milano è oggi una città in cui il costo della vita ha smesso di essere un male necessario per diventare una barriera tra chi può e chi non può, schiacciando nel mezzo chi deve (vivere vicino per lavorare in città), che non credo assegnerebbe alla città del Sindaco Sala il primato per la qualità della vita. Non c’è in questo assai discutibile primato solo un problema etico, che è personale, ma qualcosa che è molto pratico: una città in cui quasi non esistono monolocali sotto i 900 Euro sta dilapidando ogni possibile attrattività verso quel capitale umano, la classe creativa, che fa la differenza tra città che crescono bene e a lungo e città immerse nel morbido bagnetto di declino della rendita. Non si può pretendere che lo capiscano i palazzinari, né i singoli micro redditieri del b&b a casa di nonna, ma la politica e la classe dirigente sì.
Peccato che il riformismo del centrosinistra che governa Milano si sia nel frattempo stinto, fino sostanzialmente a scomparire, almeno nella pretesa di governare, o meglio indirizzare, i rapporti economici, che in una città significano essenzialmente accessibilità abitativa e servizi sociali. Qui sta vincendo a mani basse il Mercato, sorridente, sostenibile e inclusivo, fino a che gli rompi le balle e chiama il prof. Cottarelli per ribadire che non si deve disturbare il manovratore. Recuperare il riformismo non significa nazionalizzare le boutique di Montenapoleone, certo radicalismo scemo è la migliore assicurazione che tutto rimanga intatto, ma spiegare e fare in modo che a vivere a Milano non possano venire solo i figli del farmacista lucano che compra il bilocale a investimento per Giovanni che viene a studiare in Bocconi, o i bengalini che gli porteranno il sushi e dormono dio sa dove, ma anche il compagno di scuola di Giovanni, povero in canna ma talentuoso e con la voglia di spaccare il mondo. Così oggi non è, mettiamoci pure stipendi medi ben poco da prima della classe, e nel medio periodo questo significa abbassare drasticamente lo stock di cervelli a disposizione. Non è, fidatevi, una bella cosa e la pagheranno anche quelli che oggi festeggiano l’apertura di un ristorante pensato per spendere tanto, già con sedi a Mykonos e a Bucarest, che bellezza.
Per questo, seriamente, per giunta avendo imboccato il lungo tunnel che porterà alle prossime comunali, bisogna iniziare a far girare le sinapsi su come, sensatamente, riprendere in mano una città che, come le buche delle sue strade, non si può permettere di essere meglio di quasi tutte le altre, ma deve ricominciare a guardare in avanti.
Per questo serve ambizione, persone, realismo e sguardo lungo.
L’ambizione deve essere quella, come sistema, non somma di singoli, di dire qualcosa nel grande gioco globale delle città. Ci si è provato con il post-Brexit, rubacchiando qualcosa a Londra, ma oggi quell’afflato sembra assolutamente spento, proprio quando ci sarebbe molto da fare. Con un’America incarognita, le locomotive europee in affanno e la manifattura italiana in panne, una leadership che guardi lontano, invece dell’attuale vivacchiare, servirebbe come il pane.
La leadership in un’area metropolitana la fanno le classi dirigenti e il capitale umano, ossia competenze ed energie, che oggi non può più essere dato per scontato. Essere, almeno con Bologna, l’unico magnete attrattivo per i talenti in Italia non basta più, sia perché nel frattempo la concorrenza interna è ulteriormente diminuita, sia soprattutto se, per ogni talento attratto, ce ne sono due che vanno all’estero, dove il rapporto qualità-prezzo della vita è incomparabilmente migliore. Occorre tornare a investire sull’attrazione di persona, invertendo l’attuale logica di rendita.
Investire per offrire cosa? Qui bisogna essere realisti. Milano non è un set di Don Matteo, con le casine di mattoni e le persone che si salutano coi cesti della spesa, è una città che ha sempre prodotto, è sempre stata attraversata, ha sempre intrattenuto un rapporto col mondo, ha sempre creato. A chi ha l’onore di governare il compito di farlo in modo più sostenibile ma, lo dico da ciclista, la guerra ideologica per rallentare la città è perdente perché ne smonta l’identità e senza identità una città non è più nulla.
Poi, lo si è detto allo sfinimento, tutto questo vasto programma non è, né può essere, circoscritto ai microbici confini della città, con i paradossi per i quali uno stadio edificato a San Donato (stendiamo un velo su San Siro…) non va bene perché “fuori Milano”. I Milanoseri sanno che una Milano seria va come minimo da Novara a Bergamo, meglio da Torino a Venezia. Sotto questa taglia, parliamo di paesotti e perdiamo tutti.
Per governare questa marea di terra, persone, fabbriche ci vogliono testa, cuore e coraggio, che oggi sono spariti, sostituiti da un’amorevole accompagnamento al Mercato. Le anticipazioni, ovviamente assai premature, delle candidature, piene di nostalgie anni ’90, inducono solo a sperare che sia pretattica, in attesa dei nomi veri, anche se non c’è la sensazione del fuoriclasse in panchina.
Noi che vorremmo essere solo Milanoseri però lo aspettiamo: lui, lei o meglio qualche novità, vigili e fiduciosi.
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