Milano
Torneremo a ballare
Nel pieno della tempesta pandemica, sballottati da divergenti direttive di politici ed esperti che cambiano ogni giorno, comincia a balenare all’orizzonte il dibattito su cosa sarà del nostro mondo passata la bufera del Covid19.
L’emergenza, nella sua immane complessità e novità, lascia poco ad intendere su quella che può essere un’analisi di lungo periodo del fenomeno. Gli stessi virologi ed epidemiologi, gli unici in grado di darci visioni sensate sul progredire di questa vicenda, mantengono una certa prudenza sull’evoluzione di medio periodo del fenomeno pandemico.
Considerando ciò, mi ha stupito non poco la grande sicurezza con cui analisti provenienti da mondi che poco hanno a che vedere con la virologia predicono scenari sociali chiarissimi in un futuro post-epidemico di lunga distanza. Mi chiedo infatti perché gli esperti di settore mantengano posizioni caute sul futuro andamento dei cicli epidemici, mentre sociologi, filosofi, guru del tech ed economisti si producano in pronostici così accurati sul futuro nostro e del virus.
Mi riferisco in particolare all’articolo di Gideon Lichfield, “We are not going back to normal”, pubblicato sulla MIT Technology Review e rilanciato in lungo e in largo dai media internazionali e, non ultimo, dal sindaco di Milano Giuseppe Sala. Nell’articolo Lichfield, filosofo della scienza e direttore della rivista, prevede un futuro post-pandemico, non prossimo ma lontano, nel quale il distanziamento sociale è diventato norma e dove le nostre vite non torneranno mai più alla quotidianità relazionale che abbiamo conosciuto fino a ieri. Gli economisti, sempre attenti a cogliere i trend e a impacchettarli, hanno già elaborato un nome per l’economia nel mondo della distanza sociale: la Shut In Economy.
L’articolo ha avuto una forte eco sui media ufficiali e non, tanto che sono diverse le voci che si sono accodate alla visione di Lichfield, citandolo o meno.
Ma che ragione abbiamo di pensare che la condizione emergenziale di distanziamento sociale volta a rallentare l’evoluzione di un’epidemia in atto permanga nel nostro futuro lontano?
Per validare il suo argomento Lichfield presuppone condizioni ad oggi tutt’altro che scontate:
– il virus continuerà a mutare in modo sostanziale e a ripresentarsi
– non svilupperemo immunità diffusa di lunga durata
– non riusciremo a sviluppare vaccini o cure risolutive in tempo utile
In realtà, ad oggi non sappiamo se e per quanto tempo ci saranno altre ondate di Covid19, se queste saranno più severe o meno dell’attuale, se il virus sarà uguale ad ora e se avremo o meno sviluppato cure, vaccini o immunità diffusa. Insomma se il domani ci è un poco più chiaro, il dopodomani rimane ancora avvolto nella nebbia.
Di fatto oggi non possiamo sapere se i guariti sviluppano o meno immunità di lungo periodo, per questo dovremo attendere del tempo e verificare. L’unico modo per verificarlo sarà testare chi è guarito, e se è vero che possiamo testarlo oggi, il test non potrà dirci se la sua immunità permarrà nel tempo.
Sappiamo invece che ci sono allo studio tanti vaccini diversi, sia specifici che aspecifici. E’ vero, i vaccini specifici impiegheranno almeno 12/18 mesi per essere disponibili. Non è escluso che nel frattempo ci vengano in soccorso vaccini aspecifici per proteggere le categorie più a rischio potenziandone il sistema immunitario, come il vaccino per la tubercolosi costruito con il Bacillo di Calmette-Guerin (BCG), già oggetto un nascente programma di trial clinici che vede protagonisti ricercatori di quattro paesi, come riportato da Job De Vrieze sulla rivista Science. Sono al momento in lavorazione 40 farmaci e 12 vaccini (dati EMA): presupporre che nessuno funzioni è un argomento troppo fragile per un’ipotesi forte come la morte delle relazioni di prossimità.
Rimane da capire se c’é il rischio che il virus muti nel tempo in modo sostanziale, rendendo de facto il vaccino non risolutivo. Anche qui le recenti ricerche sul virus, come quella effettuata da Elisa Vincenzi del San Raffaele, sottolineano che il virus muti molto lentamente, specialmente considerando la sua velocità di contagio. Certo, il virus muta e continuerà a mutare, ma, come spiega Grubaugh sulla rivista Popular Science, guardando i ceppi ad oggi riscontrati di Sars-Cov-2, questi “…sono quasi identici. Uno non sembra più aggressivo dell’altro e un vaccino per l’uno proteggerebbe anche per l’altro”
Ecco, considerando l’effetto deprimente e straniante che il circolare di una visione così stravolgente come quella di un futuro lunghissimo fatto di distanziamento sociale può avere su una popolazione che a causa di questa pandemia sta perdendo tutto, sia in chiave economica che affettiva, e che nonostante ciò sta rispondendo con eccezionale diligenza alle norme di distanziamento sociale in atto, mi chiedo appunto se la triste previsione di Lichfeld sia poi così affidabile nel descrivere un futuro post-epidemico da dargli tutta questa visibilità.
La risposta è: “in parte sì, in parte no”. Lichfield descrive bene lo stato di eccezione in cui vivremo fino a quando non avremo un vaccino o non avremo sviluppato immunità di gregge, sottolineando la colossale crisi che affronteranno alcune attività che non possono evitare forme di assembramento (come cinema, teatri, bar, ristoranti ecc.). Ci mette di fronte alle misure di sicurezza stringenti che renderanno difficili se non impossibili attività che fino a ieri abbiamo dato per scontate. E soprattutto segnala la necessità di un intervento eccezionale e globale quanto la crisi in atto per non lasciare indietro chi questi cambiamenti li pagherà a caro prezzo. Cade però nell’errore di volersi spingere un po’ più in là, non infilando questo momento eccezionale in una parentesi temporale (seppur lunga) che non durerà per sempre. Bisogna insomma poter vedere uno spiraglio di luce per sopportare la durezza delle misure di distanziamento senza che il patto sociale si rompa. La Shut In Economy può essere una soluzione temporanea da adottarsi nello stato di eccezione della pandemia, ma nel lungo periodo i suoi costi sociali supererebbero di gran lunga i suoi benefici.
E’ indubbio che la pandemia ci imponga una riflessione sul mondo che l’ha preceduta e in certi versi facilitata. Questo è senza dubbio l’aspetto istruttivo di questo fenomeno, e rappresenta l’ennesima possibilità per riconsiderare gli aspetti insostenibili delle nostre società ed economie. Trovo in questo senso che la pandemia si presti ad analogie con il cambiamento climatico. Entrambi i fenomeni infatti sono figli della devastazione ambientale causata dal crescere della popolazione e delle attività umane, entrambi sono stati grandemente anticipati dagli allarmi del mondo scientifico e per affrontare entrambi vale la strategia di appiattire la curva (dei contagi per il Covid19, delle emissioni di gas serra per il cambiamento climatico).
Come ci fa notare David Quammen nel suo illuminante saggio Spillover, pubblicato nel 2012, da un lato “la devastazione ambientale causata dalla pressione della nostra specie sta creando nuove occasioni di contatto con i patogeni, e dall’altro la nostra tecnologia e i nostri modelli sociali contribuiscono a diffonderli in modo ancor più rapido e generalizzato”.
Ecco, in questo senso sì, la pandemia ci dice che non potremo più proseguire sulla strada di uno sviluppo economico che non tenga conto degli equilibri dell’ecosistema se non vogliamo che eventi simili diventino ricorrenti nel tempo, e altri virus saltino fuori dalle loro tane e si disperdano su tutto il globo come il Covid 19. In questo senso dall’esperienza del Coronavirus potremo trarre una preziosa lezione per affrontare un’enorme sfida come quella del clima, sperando di aver appreso che più tardi si prendono le misure per appiattire la curva, più drammatica è la conta dei danni.
Approfittiamo di questa stato di eccezione per capire ragionare sul nostro ruolo nel mondo e su quali aspetti insostenibili delle nostre vite che ci sembravano essenziali in realtà non lo sono, senza però cadere in un oscurantismo anti-sociale dettato dalla paura del momento. Cogliamo l’occasione di ripensare il nostro rapporto con la società, con l’ambiente e con la vita.
Ragioniamo anche sull’economia, sul suo rapporto col mondo sociale e naturale entro cui avviene, e su quali beni e servizi possono essere comprati e venduti e quali invece devono essere garantiti per diritto, come la sanità, se vogliamo che la società non collassi. Ma soprattutto impariamo a ragionare a lungo termine, senza proiettare le regole di oggi (specialmente di un oggi eccezionale), su un futuro che non risponde alle nostre frettolose ed egocentriche aspettative.
Questa terribile sfida ci dà l’occasione di guardarci da fuori e migliorarci. Ci impone di ragionare come collettività, mostrandoci che le nostre azioni individuali hanno un impatto sulla nostra comunità. Ci fa vedere che lungi dall’essere dei, viviamo anche noi all’interno di un equilibrio naturale che non possiamo turbare all’infinito senza pagarne un prezzo altissimo. In definitiva ci fa comprendere che non siamo monadi e che non possiamo prescindere né dal sistema sociale né dal ecosistema di cui siamo parte.
Il virus è un avvertimento, ignorarlo sarebbe da pazzi, perlomeno come specie. Dovremo ricostruire ogni cosa, restituendo le opportunità a tutti, senza lasciare indietro nessuno. Approfittiamo di questo tempo per evolvere come animali sociali piuttosto che preparandoci a diventare consumatori ancora più soli. Se sapremo farlo, diventeremo finalmente normali, più consapevoli. Ci vorrà tempo, coraggio e visione; poi torneremo a ballare, magari insieme a chi ci voleva chiusi a consumare on demand.
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