Milano
“The waste land” a Milano
Vivevo già a Milano da quattro anni quando nell’afoso e soffocante luglio dell’82 mi ritrovai fra le sue strade di periferia, tra Affori e Comasina, alla ricerca di piccoli guadagni aggiuntivi. Sebbene impiegato nel Grande Ufficio di corso Monforte non riuscivo ad accumulare, tra il fitto della pigione alla Signora Zennato in via Procaccini e i costi vivi del minuto mantenimento, i denari occorrenti per sposarmi. Nell’epoca delle comuni “Macondo” dalle parti di Parco Lambro e di “famiglie vi odio” io puntavo invece al coniugio e alla soddisfazione biologica della paternità, perché solo chi ha tensione per la vita etica e matrimoniale entra nel regno dei cieli secondo me, non certo coloro che si attardano nei sentieri dissipati della vita estetica, e si perdono tra i conati dell’espressività poetica e il puntiglio di affermarsi nelle Lettere o nelle Arti, laddove alla fine si addensano i lai e gli stridor di denti dei tanti falliti degli slanci vitali, dei trapezisti nel vuoto delle ambizioni sbagliate. Il mio motto era già allora “Bisogna essere un uomo vivo e un artista postumo”, come ammoniva Jean Cocteau in “Le Rappel à l’ordre”. Il richiamo all’ordine, certo! Cioè alla prosa del mondo per quanto mi riguardava. Vissi d’arte, vissi d’amore? Peperepè!
In quella estate per “arrotondare” (quant’è bello l’italiano dell’arte di arrangiarsi) cercai un secondo lavoro che mi si offrì nella rubrica dei piccoli annunci del “Corriere”. Una compagnia di Assicurazioni. Ben presto capii di che si trattava. Occorreva nelle ore pomeridiane e fino alla prima sera battere la zona Affori-Comasina a riscuotere i “premi” delle polizze a suo tempo sottoscritte, e con una forbicina tagliare dai bollettari la cedolina della ricevuta da consegnare al cliente. Ma il vero business consisteva in quella che in linguaggio osceno si diceva già allora “upgradare” la polizza, aggiungere cioè ammennicoli contrattuali e aumentarne così il “premio” da riscuotere dagli assicurati. Insomma era un lavoro bruto di venditore porta a porta di polizze assicurative.
Un disastro! Facevi i campanelli, arrivavi a casa della gente sfiancata dal lavoro che apparecchiava per la cena, dovevi riscuotere il “premio”, suprema e ghignante ipocrisia linguistica, e proporre l’ “upgrade” della polizza, sì, già erano in uso l’anglopovovero e la lingua di legno: gli assicurati, coppie stanche che avevano appena finito di litigare, ti guardavano con quella faccia di “ma che vuoi da noi” e non upgradavano un bel nulla, diciamo che ti buttavano giù dalle scale se c’avevano i cinque minuti perché già maledicevano quel dì in cui avevano sottoscritto la polizza ed erano stati costretti a pagare per decenni il “premio” della loro fessaggine.
L’edificio della Concordia Assicurazioni Agenzia Generale era in porta Garibaldi, ove oggi c’è lo skyline dei grattacieli e dei boschi verticali, allora solo la stazione tristanzuola di Porta Garibaldi e tutt’intorno tra Isola e via Sassetti, una vasta landa deserta già sede ferroviaria, chiamata “le ex-Varesine”, occupata in quegli anni da un gigantesco parco giochi recintato da squallide lamiere ondulate.
Nelle sale dell’Angenzia Generale si tenevano le riunioni e i focus groups di automotivazione. C’era il Capo dei Capi il Dottor Ciacci de Nobilis, dico così perché era un nobile fiorentino di cui non ricordo il titolo (grosso anello d’oro al mignolo), che parlava col forte accento dei comici toscani in gran voga in quegli anni e poi il subcomandante il ragionier Ghiringhelli, un milanese alto distinto, scuro di pelle e l’unico tra noi con la esse liquida padana, sempre elegante e sportivo, poi il mio Capozona il Dottor Cosimo De Feo, in verità un maestro elementare pugliese che si era upgradato il titolo e tutti chiamavano Dottore, e non so se faceva come noi – una ventina di agenti avventizi- quel mestiere da dopolavoro oppure a tempo pieno. Dopo una breve riunione in cui in una lavagna si segnavano le “quote”, ovvero i premi incassati e gli upgrade del giorno precedente e trasformati secondo calcoli astrusi in queste cifre-quote, si partiva per la zona con la macchina del capozona.
Il Dottor De Feo aveva una Bianchina carica di anni e giù di carrozzeria, vestiva in spezzati principe di Galles e cravatte fiorite e mi dava del Signore, Signor Schillace ovviamente, storpiandomi a bella posta il cognome, per instillare succubanza come facevano per spregio i marescialli abbuffini sotto le armi. Sapeva che ero laureato in filosofia, e mi osservava con aria curiosa: dovevo apparirgli piú strano di quanto lui apparisse buffo a me. Una volta mi scappò dalla “24 ore” il romanzo che stavo leggendo in quei giorni. Era il “Demetrio Pianelli” di Emilio De Marchi, una di quelle letture di scrittori lombardi, insieme ad Arbasino e Gadda, che avevo intrapreso per “impaesarmi” nella regione dove avevo già deciso di vivere tutta la mia vita. De Feo notò il fatto, e avrà pensato che avevo la testa in aria. Si mostrò scontento di me perché upgradavo poco e però ci teneva a parlarmi, a motivarmi e allo stesso tempo temeva che gli sfuggissi come vittima da sacrificare. Avevo bisogno di soldi certamente ma non a qualunque costo; dopotutto ero disposto a fare come nel West un matrimonio da pochi dollari davanti al giudice di pace e senza musica, e lungi da me gli sposalizi del profondo Sud, alla “il Padrino”, con gli invitati dall’Argentina o da Nuova Yorchi, e questa mia relativa indipendenza, congiunta alle letture strambe (non leggevo come tutti Asimov che impazzava nelle edicole) lo infastidiva, anzi “lo tirava scemo”. Pensava fossi snob e invece ero solo smarrito. Cercavo me stesso nei libri. E accadeva allora che durante le riunioni mi assegnasse per premio delle “quote” extra da lui prodotte per costituire sul mio capo obblighi di riconoscenza e ingiunzione tacita a servitù volontaria. Ma io mi limitavo a incassare e a ringraziare. Ero un poeta della vita.
Cosimo De Feo masticava amaro e al ritorno dal lavoro in zona in quei pomeriggi afosi e con tassi di umidità tropicale, in quella Bianchina stretta e piena di brochure, attaccava con lamenti e ramanzine velate. Finché venne il giorno, dopo due mesi di quella vita straziante, e dopo che una sera di quel luglio fui quasi malmenato da un cliente che non voleva upgradare, e alle mie insistenze mi buttò giù dalle scale, decisi di comunicare a De Feo che stavo per mollare il colpo e andarmene. E qui ci fu la scena madre.
La Bianchina si fermò davanti alla lamiera ondulata delle ex Varesine. Afose e soffocanti risonanze interiori della realtà circostante incombevano sul mio animo oppresso: da vicino lo sferragliare, tra i binari e il pavè color ruggine, del 33 alla curva d’uscita laggiù dalla via, le vetrate moderniste dell’hotel Executive, l’insegna delle Assicurazioni Concordia in cima all’edificio accanto a quelle dell’Alitalia, e sullo sfondo il fungo grigiocemento dello scalo Farini, la Torre Ferta del Circolo delle Costruzioni delle PP.TT con le sue finestrelle allineate (oggi Hotel), la stazione Garibaldi e gli annunci gutturali e stentorei dei treni in partenza e in arrivo, il campanile gigliato della chiesa di Sant’Antonio in via Farini, le lamiere ondulate infuocate di recinzione del parco giochi delle ex Varesine, e in alto la ruota panoramica coi sedili colorati oscillanti tristemente nel vuoto, e io lì in mezzo, solo col Dottor De Feo, in cerca di un destino, di un tracciato di vita, di un esito accettabile della mia esistenza, dentro il calore infernale di una Bianchina colore perso … E questo De Feo vestito come nel film “La mazzetta”, con l’odore della saponetta palmolive addosso e un leggero tanfo di alitosi, cominciò all’improvviso a declamare, quasi piagnucolando, nel suo inglese con l’accento pugliese, la sua vocazione artistica mancata coi versi dalla “Terra desolata”, perché lui c’aveva un cuore, era un poeeeta, un assicuratore solo per ripiego… strattonandomi per la manica della giacca: “Perché veda Signor Schillace” (e io quante volte a correggere ‘Squi’, ‘Squi’, come squittire, Squi – llaci, diritto all’ortografia anagrafica, cribbio!).
E lui imperterrito a declamare:
A little life with dried tubers. Summer surprised us, coming over the Starnbergersee
With a shower of rain; we stopped in the colonnade…
Diceva poi. “Veda Signor Schillace la poesia è dentro di me, mi abitaaa, mi possiedeee, mi accompagnaaa in ogni istante dell’esistenza”. Si certo, pensavo concessivo, e se magari piovesse come nello Starnbergersee, così rinfresca? C’era dentro l’abitacolo della Bianchina un caldo asfissiante, una cosa da levare il fiato. “Perché io sono un poetaaa dentro!” Ma certo De Feo…Sì, il caldo, l’afa, il sóffoco come lo chiama la vedova Zennato veniva su dall’asfalto e moltiplicato dalle lamiere ondulate infuocate che cingevano le ex-Varesine… Sì, ecco il caro mio poeta, c’è lo sferragliare di un altro 33 che svolta laggiù all’uscita dalla via, e io voglio solo prenderlo per tornare in via Procaccini, nel fresco della cucina della signora Zennato milanese originaria di Portogruaro nipote di Russolo il futurista, per dissetarmi e poi stendermi sul copriletto di ciniglia verde e riposarmi e prendere fiato dall’insensatezza del vivere in questa waste land milanese afosa e abbandonarmi alla narcosi romanzesca del “Demetrio Pianelli” di De Marchi, alla sua bella pigotta e alle grigie esistenze fine-secolo suburbane, a invocare il mio sogno di una vita ordinata, ordinaria, prosaica, lontano dalle scosse e dalle malìe della poesia, come delle fedi e dei credi.
Sì… , mi dico, mentre il dottor De Feo declama ancora, questo qui fra un po’ mi abbraccia e mi bacia ad un tratto pensai con orrore, e invece, l’imprevedibile… scoppiò a piangere, da non crederci, dentro l’Autobianchi scolorita, nella calura urbana davanti alle ex Varesine… Singhiozzava proprio il poeta mancato, l’assicuratore feroce di vecchiette di ringhiera, il seriale ammollatore di polizze a coppie in crisi, il dopolavorista spietato delle “quote” della Concordia Assicurazioni col logo del Santo a cavallo che ficca la lancia in gola al drago, ovvero il palo della polizza nell’ugola del metalmeccanico in pensione. “Io, cosa crede Signor Schillace” singhiozzava declamando
Unreal City,
Under the brown fog of a winter dawn,
A crowd flowed over London Bridge, so many,
I had not thought death had undone so many…
“Io cosa crede Signor Schillace, che sono forse nato assicuratore a domicilio? Nooo! Io le detesto le polizze rivalutabiliii, le detestooo, però mordo il freno, ecco – ragionava adesso col tono freddo dei pazzi – perché io devo sfangare l’esistenza – (e la mia mente andava alla vecchina Scaccabarozzi di via Dora Riparia cui il premio della polizza sottraeva denari per vivere e il montante del capitale se lo sarebbero pappato i nipoti). “Ecco, riprese, ho scritto un poema, meglio dire, una prosa poetica “Da Terlizzi alla Barona” dove ci ho messo tutto me stesso, la mia viiita, i miei sooogni, ma anche le mie sfide, soprattutto la mia volontà di potenza, perché la volontà di potenza ci vuole. Ci vuole nerbooo Signor Schillace, ci vuole la nerchiaaa, perché senza nerchia dura c’è solo il lirismo degli sconfitti. Resti con la Concordia Assicurazioni Signor Schillace, la farò crescere professionalmente, vedrà… Lo leggerebbe il mio poema?” concluse freddo il suo delirio porgendomi una cartella. E mentre continuava a strologare con voce alterata da capo-zona adesso, da prepotente che sente sfuggirgli la vittima da soggiogare (gratta gratta e sotto il lirico mieloso trovi il violento, l’hitler dietro il pittore vedutista), e mi venne in mente quel passo di Gramsci in cui parla del “superomismo da portineria”, quel moto mentale degli umiliati e offesi dalla vita che si riscattano contro gli oltraggi subìti dalla sorte sognando vendette da conti di Montecristo…
Ma ecco in lontananza ancora uno sferragliare di 33. Questo non lo avrei perso. Non esitai: fuori di scattooo dalla Bianchina, una corsa a stranguglioni verso il tram. E non vidi l’ora di consegnare schedari, bollettari e forbicine e andarmene al mare, al Lido Spampinato della Plaja, all’acqua tersa dello Jonio nelle ore del mattino d’estate, alle telline, al matrimonio civile da un dollaro e senza musica, nel Palazzo degli Elefanti davanti a un assessore socialdemocratico in seguito arrestato per ruberie politiche varie.
“Da Terlizzi alla Barona” era illeggibile. Finì nella botola a maniglia, giù lungo il canale murato della pattumiera che c’era nei condomini di una volta in Procaccini.
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Vedi anche L’esplosione dell’era internet e il gioco in borsa in Cordusio >>> urly.it/3-_bv
Il giuramento a Palazzo Diotti >>> urly.it/3_513
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