Milano
Tardi e male: il fracaso del PD in Lombardia (e come uscirne)
Premessa, conosco Pierfrancesco Majorino da 33 anni, per qualcuno una vita, e gli voglio bene. Non sempre sono stato d’accordo con lui ma gli riconosco alcuni meriti indiscutibili: è un professionista della politica nel senso nobile di Weber, che viene da una scuola vecchia ma molto solida, niente a che vedere coi pupazzi narcisi che circolano; come ottimo allievo di un’ottima scuola, studia; ci crede veramente, me lo ricordo una notte invernale gelida di fronte alla Centrale a distribuire da ottimo Assessore al Welfare coperte ai senzatetto: Non c’erano giornalisti, solo lui, i vigili e i disperati (e io che passavo per caso).
Posso essere politicamente più vicino a Pierfrancesco Maran, posso sognare come Presidente per la Lombardia il ritorno di Piero Bassetti (che ha già dato, non è giovanissimo, ma darebbe una pista a chiunque in tutto il sistema politico italiano), ma non ho dubbi che Pierfrancesco Majorino sarebbe un Presidente della Lombardia non solo migliore dell’attuale (ci vuole pochissimo), ma anche dello spin-off dell’attuale.
La scuola che Majorino, e brevemente il sottoscritto, ha frequentato insegna però a guardare alla struttura dei fenomeni, rispetto ai quali i singoli sono infinitamente meno rilevanti. Un lezione che ho mandato a memoria e mi è sempre servita.
Provo dunque a ragionare sul contesto nel quale cade la candidatura del mio amico Pierfrancesco, e sulla strada stretta per passare da un fracaso (il disastro sudamericano, pieno di pathos) a qualcosa di interessante.
La Lombardia è una regione molto grande e complessa. Non c’è solo Milano ma ci sono almeno tre lombardie (potrebbero essere di più): la città infinita tra Novara e Brescia, che passa per la pedemontana; le aree interne del Nord; la Bassa. Tre cose tengono insieme questo territorio: una cultura fortissima del lavoro, declinata in imprenditorialità diffusa, artigiana; un inquinamento da primato europeo; uno storico consenso al centrodestra, almeno a livello regionale, che non ha impedito negli anni che tutte le città capoluogo lombardo fosse governate anche dal centro sinistra.
Il voto al centrodestra è sempre stato lombarda mente pragmatico: nella versione leghista bossiana era uno “ya basta” verso l’indifferenza è l’ostilità romana, poi era adesione all’aziendalismo berlusconiano, poi simpatia per l’efficientismo ciellino, poi qualcosa che nemmeno si ricorda ma si fa, anche perché l’offerta avversaria non ha mai messo seriamente in discussione gli equilibri.
Dopo quasi trent’anni, la solida Lombardia di centrodestra scricchiola, beninteso dall’interno. Trent’anni senza competizione hanno prodotto l’equivalente politico dell’endogamia, una leadership debolissima (Fontana) e una classe dirigente a tratti farsesca (Gallera). Per la prima volta poi, durante la pandemia i lombardi si sono vergognati di chi li governava.
La situazione sarebbe stata dunque propizia a un cambiamento, anche solo per provare. Se solo dall’altra parte avessero fatto i compiti, ma non è accaduto.
A tre mesi dalle elezioni il PD ha appena individuato un candidato, ma non ha un’idea di Lombardia al di là delle scontate quanto vere giaculatorie sulla sanità (che durante il Covid si è liquefatta e tratta male i poveri, ma continua ad attrarre pazienti da tutta Italia) e i trasporti (Trenord è una vergogna nazionale). Tutte cose, necessarie, da opposizione di testimonianza.
Governare è un’altra cosa, che passa per il rendersi credibili, possibili, come alternativa agli occhi degli elettori che hanno adesso la percezione di una classe di governo bolsa e inefficace e sarebbero anche disposti a provare altro. Significa dare un messaggio che si ha un’idea per la Lombardia che va oltre l’evidenza di quanto gli altri sono pessimi e incapaci.
Un’idea che, lo dimostra la vittoria di Pisapia a Milano e non solo, può anche essere più orientata del frusto schemino della curva a campana (per cui il grosso degli elettori è al centro e solo lì si vince). In un periodo di confusione e transizione come l’attuale, gli elettori possono anche premiare candidati “connotati”, con una storia e una certa radicalità di approccio (la radicalità essendo un metodo, non un contenuto in sé).
Perché questo accada, però, non bastano le giaculatorie, serve una visione del mondo (o quantomeno della Lombardia) che, se vuole essere di governo, ossia portarsi a casa la maggioranza degli elettori, deve fare i conti con cosa è la Lombardia. Deve dire qualcosa alle imprese, non solo a quelle grandi che con il PD vanno sin troppo d’accordo, ma con il tessuto diffuso delle micro e piccole, che hanno energia, idee e paure alla quali bisogna rispondere. Deve dire qualcosa alle aree interne, tagliate fuori dai servizi e soprattutto spaventate perché si vedono diventare periferia. Deve dire qualcosa a tutti quelli che non hanno sinora riconosciuto la Sinistra come portatrice di un’offerta da prendere in considerazione e fargli fare una coalizione con i tradizionali referenti della Sinistra. Si può fare, ma bisogna lavorare, avere idee e cazzimma. Quella stessa cazzimma che avrebbe permesso di affrontare l’ipotesi Moratti da adulti, cioè senza psicodrammi, perché forti del proprio (anche per fare la mossa dadaista di imbarcarla Donna Letizia, facendole firmare impegni programmatici su Welfare e Sanità che neanche in Scandinavia).
Al di là della somma delle figurine, che è perdente, bisogna stabilire una connessione emotiva non solo con i tuoi, ma con la maggioranza degli elettori, che alla fine sono pragmatici e se dici qualcosa che li convince (non che li liscia, che li convince) ti possono votare.
Se invece, per stanchezza, mancanza di fantasia o stolidità, si pensa che d’emblée si possano dire le stesse cose “di sinistra” di prima, rispolverando la gioiosa macchina da guerra che ha appena preso una scoppola da paura e proporre (mi scuso se sono brusco, con gli amici si può e si deve) un grande Pride da Lovere a Rovescala, senza avere niente da dire agli artigiani brianzoli e bergamaschi, meglio lasciar perdere. Abbiamo, anzi avete, già perso.
Quella roba lì, incorniciata dall’intervista di Repubblica a Elly Schlein, puro waporware, non interessa quasi a nessuno (lo dicono i numeri) e in Lombardia interessa meno che altrove. Se poi serve solo per misurarselo in pubblico per rese dei conti future e tutte interne al ceto politico, vergogna.
Una postilla: se il PD ha imparato qualcosa si vedrà anche dalla composizione delle liste, ossia da quante donne e uomini in lista rappresenteranno investimenti sulla creazione di una futura classe dirigente di centrosinistra in Lombardia, oggi pressoché assente (nonostante i sindaci e gli eletti che fanno un lavoro notevole). Speriamo.
In bocca al lupo Pierfrancesco, la scalata è durissima ma sei un montanaro coi fiocchi e ce la puoi fare.
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