Cibo

I sommelier italiani salgono in cattedra

16 Luglio 2015

All’inizio era Ganimede, il coppiere degli dei, il più bello tra gli umani. Si occupava di mescere nettare e ambrosia, mentre i più prosaici coppieri dei banchetti rinascimentali si sarebbero limitati a versare il vino al principe e ai suoi commensali. Prendendola un po’ alla larga, si potrebbe dire che il mestiere di sommelier origini nelle altezze dell’Olimpo. Scendendo giù alle cose terrene, quest’anno l’Associazione italiana sommelier festeggia mezzo secolo, e l’anniversario sarà celebrato domenica 19, all’Expo: al Waterstone di Intesa Sanpaolo, alle 10.30, dove si daranno appuntamento i professionisti del vino del nostro paese all’interno di un progetto che, in questi mesi e fino alla fine della manifestazione, vedrà l’istituto ospitare 400 aziende ‘campioni’ del made in Italy e numerosi eventi culturali e di intrattenimento, mettendo a disposizione nel Waterstone uno spazio d’incontro e di confronto

Nel Medioevo all’interno di certi ambienti sociali esiste una finissima sensibilità nel distinguere le uve con le quali è fatto un vino. Nell’XI secolo san Pier Damiani, monaco fustigatore dei costumi, nell’intento di condannare queste raffinatezze a suo dire insensate, non si rende conto di lasciarci un documento sensazionale: «Questo vino, un leggero brivido di una leporina lo rende asprigno; quello è snervato dalla debolezza della venacorica; quell’altro rosseggia per la porrotasia; in questo vino certo è presente parecchia uva aminea, ma la retica tende quasi a superarla». parte i nomi dei vitigni di mille anni fa, oggi non più riconoscibili, sembra di sentir parlare un sommelier dei nostri giorni.

È nel Cinquecento, ovvero nel secolo della cucina italiana (il Seicento lo sarà della cucina francese) che si cominciano a codificare i ruoli dei vari servizi di sala e a sottolineare l’importanza della mescita del vino (che il vino in sé fosse fondamentale era invece cosa già ben risaputa). Il banchetto principesco obbedisce a una gerarchia di ordine quasi soldatesco: al di sopra di tutti c’è lo scalco – non a caso marescalco è un grado militare – che riassume in sé i compiti che oggi sono dello chef, del maître, dell’economo. È proprio lo scalco a disporre l’ordine delle bevande da servire e a trasmetterlo al bottigliere, ovvero il responsabile della cantina; sarà poi il coppiere a provvedere alla mescita in tavola. Sono queste due ultime figure che, una volta fuse, daranno corpo a quello che noi oggi conosciamo come sommelier.

Nel tardo medioevo, anche nei banchetti più raffinati, non esistevano bicchieri individuali: si beveva in due o in tre dalla stessa coppa e, essendo già in uso il costume di alternare uomini e donne a tavola, questo favoriva non poco l’avvicinamento tra i sessi. Ci saremmo riconosciuti poco nel modo di servire il vino di quei tempi. Oggi abbiniamo cibi e vini per affinità: il delicato col delicato, il forte col forte; all’epoca era il contrario. Maino de’ Maineri, medico dei Visconti nella Milano di metà Trecento, afferma che «il vino deve essere più forte con il pesce che con la carne». Domenico Romoli, detto il Panunto, in “La singolare dottrina” (1560) afferma che bisogna cominciare i banchetti con vini bianchi amabili per l’insalata e il melone, proseguire con i dolci per i lessi, quindi i bianchi per i volatili arrosti e finire con rossi molto dolci e forti per gli arrosti di carni rosse.

Bartolomeo Scappi nel 1570 pubblica la sua “Opera”, forse il più importante trattato di gastronomia del XVI secolo. Suggerisce di utilizzare il vino per diluire, stemperare, bagnare, ammorbidire, aromatizzare, dar corpo e colore. Ed è sempre Scappi – era cuoco personale di papa Pio V – a spiegare si debba organizzare la cucina di un signore mentre è in viaggio. Tutto piuttosto complicato, comunque ciò che interessa a noi è che una persona esperta deve sovrintendere alle operazioni di carico e scarico dagli animali da trasporto delle ceste con bevande, alimenti e stoviglie; deve someggiare ceste e casse sui quadrupedi, insomma. In Francia questa figura prende il nome di sommelier.

Il sommelier, quindi, nei suoi primi secoli di vita non aveva a che fare soltanto col vino. Alla corte del duca di Borgogna, verso metà Quattrocento, esistevano un primo sommelier del corpo, sei sommelier di camera, e sei sommelier del corpo. I sommelier del corpo si occupavano degli abiti del duca, quelli di camera dovevano sorvegliare il letto del duca durante la sua assenza. La figura del sommelier come lo conosciamo noi oggi nasce a inizio Ottocento in Francia, e sempre in Francia, e in particolare a Parigi, nel 1907 si forma l’Unione dei sommelier, che al tempo riuniva sia i sommelier, sia i cantinieri. L’associazione, tuttavia, nel 1959 viene disciolta all’interno di una più ampia Mutualità alberghiera e riguadagna la propria autonomia soltanto nel 1969 con la creazione dell’Associazione dei sommelier di Parigi.

Nel frattempo, e siamo al 7 luglio 1965, era stata fondata a Milano, l’Associazione italiana sommelier, che risulta quindi essere una delle più vecchie associazioni di sommelier del mondo, oltre che la più numerosa con i suoi trentacinquemila aderenti e oltre centocinquanta sedi sparse in tutto il paese. Davanti al notaio, in quel luglio di cinquant’anni fa, si ritrovano in quattro, Gianfranco Botti, Leonardo Guerra, Ernesto Rossi e Jean Valenti. L’associazione viene subito presentata alla stampa nell’hotel Palace (oggi Westin Palace) ed è lì che sono cominciati i festeggiamenti per celebrare il mezzo secolo dei sommelier italiani.

Proprio Jean Valenti, decano della sommellerie italiana, ha ripercorso in un’intervista com’era nata l’idea. Nato in Francia nel 1923, nel 1960 viene a lavorare al Savini di Milano. «Rimasi un po’ deluso perché in un grande ristorante come il Savini la maggior parte del vino era sfuso, con poche bottiglie di pregio. Capii che in Italia, allora, mancava completamente la cultura del vino. Dopo qualche anno fu un mio affezionato cliente a farmi riflettere sulla necessità di fondare l’associazione italiana sommelier. Si trattava del direttore generale della Bayer, un uomo importante che aveva girato mezzo mondo e che mi disse: “È un peccato che gli italiani non conoscano i propri vini”. Fu allora che capii che senza una scuola che potesse formare dei professionisti del settore, nulla sarebbe mai cambiato».

Da quel giorno di luglio del 1965 l’Ais di strada ne ha compiuta tantissima. Il mestiere si è evoluto, ha goduto dei preziosi contributi di personaggi come Luigi Veronelli  (l’anno prossimo saranno i novant’anni dalla nascita). Oggi l’Associazione è guidata Antonello Maietta, pubblica una rivista “Vitae”, dispone di un proprio canale televisivo, SommelierTv, e continua organizzare corsi di formazione professionale. Nel 2014 vi hanno partecipato oltre settemila persone, un terzo delle quali donne, a conferma della sempre crescente femminilizzazione del mondo del vino. Il 45 per cento dei partecipanti ha un’età compresa fra i diciotto e i quarantacinque anni. Se ottenere il diploma dell’Ais è come laurearsi, ci sono tappe successive che costituiscono un po’ le specializzazioni (comunicazione, degustazione, abbinamento cibo-vino, servizio, gestione dei corsi) oppure il master, come quello in collaborazione con la Scuola internazionale di cucina, retta da Gualtiero Marchesi.

La definizione più bella del vino resta con ogni probabilità quella data nel 1969 da Mario Soldati, in un libro “Vino al vino” che costituisce un caposaldo della storia dell’enologia italiana: «Il vino può paragonarsi soltanto a un essere umano e vivente, immisurabile, inanalizzabile se non entro certi limiti, variabile per un infinità di motivi, effimero, ineffabile, misterioso».

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