Milano
“Se non torno entro mezz’ora mi ammazza”: storia di una notte qualsiasi a Milano
Doveva essere solo un “ultimo giretto” col mio cane, Aristide. Un ultimo giretto come tutti gli altri. Siamo usciti alle undici e qualcosa, più o meno come tutte le sere, in uno di quei pezzi di Milano che centanni fa era campagna, trentanni fa profonda periferia, quindici anni fa zona con un bel potenziale, e oggi ringrazia il cielo se tua nonna viveva in una casa di ringhiera da quelle parti, e tu sei l’erede. A monte, non c’entra. All’inizio dell’ultimo giretto di Aristide, sempre quello, sempre attorno all’isolato, abbiamo davanti di una ventina di metri una donna, anche lei con un cane. I cani si inseguono. Aristide in particolare insegue tutti i cani che ha davanti, e tira. L’inseguimento in questo caso finisce molto in fretta, la donna e il suo cane camminano molto piano. Lei di tanto in tanto si appoggia al muro del palazzo accanto a quello in cui vivo io. La raggiungo al primo angolo, lei è quasi accasciata. “Signora, sta bene?”. Scuote la testa, biascica. Per un caso fortunato, la sfortuna di qualcun altro è la sua fortuna. Nella piazzetta di fronte c’è un’ambulanza che sta soccorrendo un ragazzo che è svenuto. Le dico di stare ferma e corro là, spiego che all’angolo c’è una donna che non si regge in piedi. Si avvicinano alla signora l’autista dell’ambulanza, un omone sulla sessantina, e un ragazzo in servizio che avrà forse trent’anni.
“Cosa succede signora?”. “Il mio compagno mi ha massacrato di botte”. Il suo cane è dolcissimo, e inizia a giocare con Aristide, che sarebbe bello, se fossimo in un’area cani del quartiere. “Non chiamate la polizia, non posso denunciarlo, lui è cattivissimo”. Intanto le misurano saturazione, pressione, battito. “Sto bene, sto bene”, dice, mentre sviene. “Cosa le ha fatto, signora?”. “Mi ha dato un pugno”. Le chiedono perchè non vuole denunciarlo. “Non posso, non posso”. L’autista dell’ambulanza è fraterno, protettivo, molto dolce. “Signora, oggi è un pugno, domani è peggio. Adesso viene la polizia e…”. “No no, non chiamate la polizia”, dice provando a rialzarsi, senza riuscirci. I cani intanto giocano, si annusano, festeggiano una nuova compagnia. “Se chiamate la polizia quello arriva a e mi ammazza”. “Non si preoccupi signora, fino a quando è con noi quello che deve avere paura è lui, non lei”. Ma lei continua a ripetere: “Lui è molto, molto cattivo”. Le chiedo da quanto tempo la picchia. “Dieci anni”. Dieci. Anni. 10. 3650 giorni. Di botte. “Se non torno entro mezzora mi ammazza”. Arriva una giovane volontaria dall’ambulanza, che si incarica di medicarle la ferita da percosse. “Lei è brava, ci sa fare” mi dice l’autista. “Vedrai che la convince a denunciare”. “Non denuncio. Basta che non mi portino via il cane, è l’unico amore della mia vita”. Mi sento come chi è al confine tra la cura e l’indiscrezione, tra l’attenzione e l’impotenza che diventa morbosa. Saluto, ringrazio i volontari per il loro lavoro, sorrido alla signora, accarezzo l’unico amore della sua vita, e mi allontano, dolente, per finire il giro dell’isolato.
Ma arrivati davanti al portone di casa, forse nostalgico del suo nuovo amico, Aristide tira, per tornare al punto in cui c’eravamo fermati qualche minuto prima. Dove la signora era stata soccorsa. E quando arriviamo c’è la polizia, da poco arrivata, ma certo già informata dai volontari.
“Chi le ha fatto del male, signora?”.
“Sono stata aggredita da una banda di sudamericani”.
“Signora, siamo qui per aiutarla. Non ci prenda in giro, smetta di dire bugie”.
La poliziotta è gentile ma ferma, la guarda negli occhi. È il lampo più chiaro che vedo, in una serata di primavera invasa dal buio.
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