Beni comuni

Se non qui, dove

25 Novembre 2021

Rino Gaetano cantava la ballata dell’operaio che va in gita a Moncalieri, perché non vuole andare a lavoro, ma non vuole nemmeno scioperare. Ha fatto gli straordinari, ha pagato il muto, ha comprato la millecento, del resto è una macchina che conosce bene, dovrebbe essere per i quadri e i colletti bianchi ma non vuole una seicento. Succede così, al ritorno, in una Torino diremmo oggi gentrificata, trova la sua macchina bruciata.

Sta succedendo così, più o meno in tutte le periferie delle grandi città italiane e in quelle di molte città europee, non è un copione nuovo. La sfida è vedere se questo copione si ripeterà uguale o se ci saranno degli spostamenti, delle modificazioni capaci di fare la differenza, per cui finalmente sia possibile cambiare dal basso mettendo al lavoro il sapere e le competenze possibili di chi vive in periferia, oppure continuare a bruciare anni di lavoro paziente di chi sta solo cercando di costruire una idea di spazio pubblico un po’ diversa da quella degli anni settanta. I mitologici anni settanta, dove per la maggior parte la vita collettiva era fatta di violenza per strada, sparatorie e abbandono, oppure di poche persone che, forti del loro ruolo, almeno nei salotti hanno cercato di dare una forma presentabile al potere, o di discuterne la natura. Ed è stata l’unica forma di generosità civile praticata in questo paese, un po’ cyberpunk è un po’ spaghetti western, in cui viviamo.

Dato che di vita ne abbiamo una sola, e di spazio in cui questa vita si dispiega anche, la domanda è, se non qui, dove?

Nei gruppi dei benpensanti studiosi e attivisti, succede sempre che se la rigenerazione non la faccio io, allora è gentrificazione.

Perché esiste la rigenerazione buona, quella che faccio io, e rigenerazione cattiva, quella delle associazioni quartiere e delle circoscrizioni?

Forse nella risposta un po’ misera a questa domanda retorica sta il motivo per cui alla fine, stanchi di dovere essere ridotti alla propria pittoresca caricatura, e stanchi di doversi sempre dibattere fra speculazione o rivoluzione che mai arriva, in molti quartieri di periferia, si finisce per fare una palestra di violenza civile che porta alle ronde, al delirio sicuritario e alla resa alla paura dell’altro. E a una esperienza di comunità basata sul più antico dei dispositivi di esclusione, l’ostracismo.

Chi scrive si ricorda bene gli anni novanta. Essendo al seguito di una mamma curiosa che, insegnando, passava le estati correggendo compiti scritti di esami di Stato come commissario esterno in giro per l’Italia, ricorda bene l’estate del Raphael e delle monetine, le piazze di Roma con le dirette censurate di Mediaset, e ricorda bene il debutto della sicurezza urbana come deposito assicurato di paura da usare a fini elettorali. Era un giorno di inverno quando una adolescente curiosa entrava in una assemblea studentesca alla Cattolica, in cui due gruppi di studenti di parti avverse discutevano con Gianni Pilu, il primo responsabile della comunicazione politica di Forza Italia. In quella assemblea, il relatore spiegava giulivo, se le statistiche raccontano che la paura più grande della signora Giuseppina è  lo scippo davanti alle Poste da parte di un giovane disoccupato, – anche dove le statistiche sulla criminalità dimostrassero il contrario, – è giusto che un politico consideri quelle paure e dia loro un valore. Perché questo avrebbe fatto sentire la signora Giuseppina, che era in molti quartieri il campione più significativo della popolazione, finalmente al centro dell’attenzione.

Noi abbiamo raffinato questo meccanismo, adesso il nipote cresciuto della signora Giuseppina ha girato il mondo, tornato a casa vede che non fa la rivoluzione e nemmeno partecipa alla vita politica della sua città per un disagio collettivo, aggravato dalla pandemia. E qualcuno ha già capito che questo serbatoio di paura ha un valore.

Attenzione a non sbagliare bersaglio, e dentro una periferia abbandonata, ritrovarsi a bruciare il lavoro degli altri come noi.

La mia speranza è che riusciamo a non ripetere il copione degli anni settanta e degli anni di piombo, dove al posto del piombo ci sia la sistematica autodistruzione di una generazione di delusi narcisisti, sedotti a abbandonati dalla gentrificazione buona, incapaci di riconoscere la occasioni per cambiare, di poco, ma per tutti, le cose.

Se non qui, dove?

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