Milano

Scegliere da che parte stare

24 Aprile 2018

Appiattendosi sulla “ragion di Stato”, il P.D. ha trascurato il proprio orizzonte ideale, ma il mito del buongoverno non è sufficiente per mantenere il consenso. Ecco perché, prima di poter dare risposte a chi ci contesta nelle periferie e a chi ci lusinga con inviti al Governo, dovremmo prima risolvere alcuni dilemmi identitari

 

Non è la prima volta che la sigla P.D. si presta ad essere interpretata come “psicodramma”. Tre esiti deludenti su altrettante elezioni nazionali da che esiste il partito hanno consolidato la nostra attitudine alla sofferenza e al rimuginare sulle ragioni della sconfitta.

 

Eppure questa volta un elemento nuovo c’è: il senso di estraniamento e frustrazione di chi non si aspettava una debacle umiliante come quella del 4 marzo, nella consapevolezza di aver ben governato il Paese. Ed è una sensazione comprensibile, perché in effetti i governi guidati da Renzi e Gentiloni hanno centrato obiettivi importanti, come obiettivamente va riconosciuto anche da chi osserva le cose da altri punti di vista (anche interni al partito, come il sottoscritto).

Temo che ben presto verranno rimpianti persino da chi ha votato altre forze politiche.

 

Una sensazione nuova – a livello nazionale – ma non nuovissima, visto l’esito di numerose elezioni che recentemente hanno segnato il passaggio al centrodestra o al Movimento 5 Stelle di comuni precedentemente amministrati dal centrosinistra. Alcuni casi nella provincia di Milano, come Corsico e Settimo Milanese, sono stati altrettanto traumatici, vista la storica propensione dei loro elettori a concederci la loro fiducia. Non meno dolorosa è stata la perdita di cinque dei nove municipi meneghini nelle elezioni del 2016, dopo che il trionfo di Pisapia nel 2011 aveva portato a uno storico nove su nove anche nel decentramento cittadino. La gioia per la vittoria di Sala nel ballottaggio, benché più sofferta del previsto, ha anestetizzato la ferita aperta e ci ha allontanato da una riflessione che sicuramente avrebbe anticipato i temi oggi riemersi nel dibattito nazionale.

 

Se si trattasse di psicanalisi, potremmo dire che il problema rimosso è poi tornato a manifestarsi con prepotenza sotto forma di sintomo, in questo caso rappresentato dal clamoroso scollamento tra la nostra parte politica e i suoi tradizionali riferimenti: le periferie, i lavoratori e gli “ultimi” dai quali siamo sempre più lontani, mentre scopriamo di avere sempre più gradimento nei centri delle città e nei ceti più abbienti.

 

Ovviamente, questi voti non ci devono dispiacere affatto. Dobbiamo però capire le radici di questa mutazione genetica, che a mio avviso stanno proprio nella capacità del P.D. di assumere su di se’ la responsabilità di governare una fase decisamente difficile nella vita di un Paese che si è trovato schiacciato tra la fine del bipolarismo e la più grave crisi economica del secondo dopoguerra. Da Monti a Letta, per poi passare all’alternanza Renzi-Gentiloni, il P.D. ha accettato di stare nella stanza del potere, nel nome di una ragion di Stato che inevitabilmente non poteva fare contenti tutti. Non mi pare casuale che, per la prima volta, i nostri voti vengano specialmente da chi è soddisfatto della propria condizione sociale, spesso anche a prescindere da quello che fa la politica. A Milano, che è l’unica città d’Italia pienamente europea, il giusto orgoglio per l’amministrazione in carica da sette anni non ci deve far sottovalutare questo fondamentale aspetto.

 

Anche perché oggi Milano è incastrata tra il problema delle periferie, dove il consenso dell’unica esperienza di centrosinistra tuttora al governo è in evidente calo, e la questione regionale: che Gori (pur essendo un ottimo candidato) finisse col perdere contro Fontana era probabile, ma che il distacco fosse di queste proporzioni lo avevamo previsto davvero in pochi. Ci sono quindi tutte le premesse per pensare che, a meno di una svolta, nel 2021 anche qui possa esserci un passaggio di testimone, che ovviamente preferirei evitare.

 

Già, ma come? A ogni sconfitta, torna in auge il tema di un P.D. che non sarebbe abbastanza “radicato sul territorio”. Davvero è questo il problema? Forse è altrove è diverso, ma a Milano il presidio dei nostri circoli è capillare, vista la loro capacità di dialogare con le associazioni e organizzare iniziative. Sicuramente, nessun altro partito può vantare una presenza di questo livello nei quartieri, dove però l’esito elettorale è stato drammaticamente diverso, a prescindere dalle relazioni in essere e da quanto fatto nel corso dei precedenti mandati.

 

Nemmeno la più efficiente delle amministrazioni può soddisfare pienamente tutte le istanze di una società sempre più complessa e segnata dalle diseguaglianze, nella quale l’interesse di singoli o gruppi raramente coincide con quello collettivo. Fare sintesi tra bisogni diversi era il compito tradizionale dei partiti, oggi in evidente affanno, mentre inseguire le “buone pratiche” e un mito di perfezione gestionale costa una fatica immane e non porta i risultati sperati, anche perché il voto generalmente esprime una speranza verso il futuro, più che una riconoscenza per il passato. Anzi, talvolta posizioni più realiste del Re finiscono con l’etichettarti negativamente come fiancheggiatore dell’estabilishment, avviandoti verso una sconfitta non dissimile da quella toccata in sorte a Hillary Clinton. Anche in Italia, siamo stati percepiti come un partito ormai fin troppo a suo agio nella stanza dei bottoni, forse perché ci siamo appiattiti sulle responsabilità istituzionali, perdendo di vista l’orizzonte ideale.

 

Temo che sia difficile riconquistare la fiducia degli elettori senza prima chiarire bene la nostra identità e le nostre aspirazioni. I voti dei centri cittadini sono preziosi tanto quanto gli altri, ma se rappresentare tutti è praticamente impossibile (e mi torna in mente il progetto di un partito “della nazione”…) sarebbe bene porsi delle domande: siamo il partito del centro o della periferia? Degli imprenditori o degli operai? Del conformismo o dei diritti? Della conservazione o del progresso?

 

Se ci chiarissimo prima questi temi, non banali, sarebbe più semplice rispondere anche alla domanda che tutti si pongono in questi giorni, ovvero se confermare l’annunciata linea di opposizione al Governo che faticosamente si sta cercando di mettere insieme o se cominciare a prepararsi all’ennesima chiamata alla responsabilità che potrebbe arrivare dal Presidente della Repubblica o, con meno enfasi, dal Presidente della Camera nell’espletamento del suo mandato esplorativo.

 

Sarebbe più semplice anche rispondere a un’altra domanda, più importante nel lungo periodo: il P.D. ha ancora senso con le sue ragioni fondative o, come sostiene Cacciari, non è nemmeno mai nato? Si può ripensare oggi a ricostruire un nuovo centrosinistra o è una stagione definitivamente finita? Sarebbe necessario discuterne in ogni sede possibile, dai bistrattati circoli (che meriterebbero più considerazione) all’Assemblea nazionale, rinviata con quello che a mio avviso è stato l’ennesimo errore di questa tormentata fase di crisi esistenziale.

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