Salva Milano

Rallenta Milano: giocare semplice è meglio che andare contro un muro

Milano, dopo il boom post-Expo, affronta una crisi politico-amministrativa che ne mina il dinamismo. Lo smarrimento si riflette nei guai giudiziari e nel declino dei servizi. La città si è romanizzata e manca di una visione chiara. Serve meno narrazione e più concretezza per ripa

9 Marzo 2025

Il pezzo magistrale di Jacopo Tondelli sulla fine della Belle Epoque della Milano post Expo racconta molto bene lo smarrimento della città vista dall’alto di fronte a quella che è con grande chiarezza un’impasse politica e amministrativa, lasciata marcire sino alle sue inevitabili (?) conseguenze giudiziarie.

Lo stesso giorno in cui finiva ai domiciliari il dirigente comunale in pensione Giovanni Oggioni, per molti anni figura apicale dell’urbanistica milanese, accusato di comportamenti che si immaginavano più propri di altre latitudini, finiva costretto a casa anche Davide Lacerenza (qui un promemoria per chi ancora non sappia chi sia), divo del lato più social-cafone del milanese-dream. Due pezzi molto distanti di Milano, che finivano insieme per rappresentare una sorta di redde rationem per la vita dissoluta della locomotiva d’Italia, ora a dieta di endorfine da comunicazione.

Tutto abbondantemente già vissuto, per chi è abbastanza vecchio della città: gli impicci immobiliari e gli zanza che se la comandano ci sono già stati, ed erano anche assai più crudi di questi, con Turatello al Derby e l’architetto Larini, ma certamente rovinano la “narrazione”. Quella di città persino bella, efficiente, secchiona ma alla mano, che non si ferma ma è attenta all’ambiente (anzi è la più attenta, che Milano gioca solo per vincere), costruisce i grattacieli ma recupera i “quartieri”, ospita la via più cara al mondo ma con tre strisce di colore pastello ti fa pure l’urbanistica tattica, che rigenera senza troppa spesa.

Ci piaceva, a me per primo, la narrazione, di cui ognuno prendeva il pezzo che preferiva: a me ad esempio piaceva sentire gli amici romani che dicevano quanto era bella Milano. Anche chi la odiava, quella narrazione, ci ha campato, fosse solo con un libretto in cui si diceva che erano tutte scemenze. Non lo erano, e anche quando lo erano avevano il loro senso: le città non sono paesi cresciuti, sono stomaci che digeriscono varietà e sputano fuori opportunità. Lacerenza e i ragazzi dell’economia sociale a BASE non sono ossimori, sono la dieta onnivora di un luogo che è interessante proprio perché è vario e in costante movimento, e che attorno a questo movimento attira le persone più dinamiche, perché siano o diventino quello che vogliono. L’ha spiegato John Dos Passos in Manhattan Transfer che le città sono “il posto in cui succedono le cose” e continua ad essere così, come continua ad esserci la competizione tra città per prendersi il meglio di quelle inquietudini e dei capitali che si portano appresso o che potrebbero generare.

La narrazione, a volerla vedere bene, era questo, rispondeva a queste funzioni, ed era anche già malconcia da un po’, come Tondelli illustra senza sconti: il gioiellino di buona amministrazione, dinamismo urbano e capitalismo ben temperato dal governo di centrosinistra da tempo è assai ammaccato.

La città si è andata romanizzando nell’esperienza quotidiana, con tanto di buche, monnezza, mezzi pubblici in affanno, servizi pubblici in ritirata, vigili inesistenti (peraltro negli ultimi tempi tutti quasi questi parametri a Roma sono migliorati). Sconcetti urbanistici come la ristrutturazione cementificata di Piazza San Babila e i palazzoni post sovietici del villaggio olimpico (!) hanno messo a dura prova il neoacquisito concetto di bellezza estetica della città, mentre ho provato in prima persona l’imbarazzo di fronte all’impazzimento dei dazi immobiliari per venirci a vivere da fuori. Peggio, per la vita in rosa che necessariamente sottende ogni narrazione, a parte un non ancora abbastanza caldo entusiasmo per le prossime Olimpiadi invernali, la città non ha visione, obiettivi, prospettive verso cui andare, ognuno con i propri mezzi.

Capita, ché le fortune delle persone, delle organizzazioni e delle città sono cicliche e non si può controllare tutto. Ma nei momenti in cui le cose non girano bisogna prepararsi per il dopo, investire, e fare manutenzione ordinaria, ponendo mano agli errori che chiaramente sono stati compiuti. Bisogna anche, come ha detto l’altra sera l’allenatore del Feyenoord ai suoi, che stavano perdendo contro l’Inter e non ci capivano più nulla, “giocare semplice”, che non è facile ma è necessario per non farsi più male quando sei in confusione.

Proviamo allora a giocarlo semplice, questo risveglio di Milano dal sogno post-Expo e il rallentamento necessario fino alla prossima, altrettanto necessaria, bolla.

Partiamo da Palazzo Marino, dacché la crisi della città è innanzitutto politico-amministrativa.

Giuseppe Sala probabilmente non siederà con Greppi, Aniasi, Tognoli e Albertini nel pantheon dei migliori sindaci che Milano abbia espresso. Soprattutto il secondo mandato è stato sinora assai grigio e se si pensa che sarebbe dovuto essere, per la depoliticizzazione della giunta da lui imposta e da altri accettata e perché è quello della legacy, da consegnare alla Storia, quello del Sala in purezza, da elettore e contribuente milanese dico che non siamo proprio.

Aveva peraltro Sala il vantaggio, speculare a quello del Governo nazionale, di un’opposizione inesistente, credo anche perché non la voglia davvero governare, Milano.  Trump, Salvini, Meloni e compagnia cantante sono cose da provincia incazzata, la città vuole qualcosa di più glamour e dinamico e oggi certo non pensa a riconsegnarsi a De Corato, a meno ovviamente che i progressisti la facciano troppo grossa. Che può capitare, molto per la mancanza di predatori naturali, di quel pungolo continuo rappresentato dalla competizione, che ti fa crescere etologicamente debole.

Si ha infatti oggi, guardando alle vicende del principale partito di maggioranza milanese (e dell’opposizione nazionale), la sgradevole sensazione di una classe dirigente onesta e appassionata, ma drammaticamente al di sotto della sfida. Meglio, selezionata per sfide, il linguaggio inclusivo, i diritti individuali, la transizione green come grande opportunità, la lotta all’infame precariato, oggi spietatamente sovrascritte dalla Storia, che ha riportato a galla istinti animali, sociali ed economici primordiali, che non si tengono certo a bada con quattro idee ripetute a paperella.

Vale per Elly Schlein, che balbetta di pace mentre fuori c’è la guerra vera, vale per la patetica arrampicata sugli specchi qui sotto, comparsa sui social nel tentativo di dire disperatamente qualcosa per non affogare, che è quello che fanno con molto maggior profitto gli esponenti della Destra mondiale che il PD depreca.

La vicenda del Salva Milano ha fatto detonare questa somma di fatiche e mal di pancia, come quei pranzi di Natale in famiglia che vanno male per una parola storta, mostrando tutte le magagne di una bella tavola borghese. Non ci tornerò, perché altri ben più autorevoli ne hanno scritto, ed io ho convenuto, paventandone gli errori ed i problemi anche prima che uscissero “le mele marce” da un frutteto che era in bella vista. Dopodiché Milano non è Gotham city, non vi è alcun disegno intelligente, men che meno criminale, di spoliazione della città, solo l’ennesimo cedimento di una politica debole al “mercato”, che sembra sempre carino e amichevole ma poi “forse” esagera, è il suo mestiere.

Giocare semplice vuol dire tenere bassa la palla delle dichiarazioni roboanti e delle certezze assolute, ascoltare chi ha qualcosa da dire, confrontarsi senza fare di ogni momento di pensiero l’ennesimo, stupidino, evento di comunicazione. Se la politica vuole essere seria, anche per smarcarsi dai cialtroni che se la comandano, deve riscoprire il valore del silenzio come antidoto alle cazzate, parlare meno per parlare meglio.

E rallentare, la città che non si ferma ora deve riscoprire il valore di andare più piano per poi tornare a correre, perché quella è la sua natura, ma ci vuole forma e direzione, oggi assenti.

Per questo, al posto di quell’orrenda polpettona avvelenata, che spero muoia in Senato, ci vorrebbe un bel RallentaMilano, un detox di fesserie che metta tutti di nuovo in condizioni di fare correre la nostra città come merita.

Ce la facciamo?

 

 

 

 

 

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